TERRORISMO IN ITALIA.

Esiste per qualsiasi fenomeno che abbia implicazioni sociali un periodo di incubazione, una fase di maturazione e un momento, per così dire, conclusivo e terminale. Difficile, quasi sempre, però indicare il momento esatto della nascita di questo o quel fenomeno.
Per il fenomeno terroristico italiano – e stiamo parlando qui di sovversione di matrice di sinistra – è invece possibile indicare un preciso punto di svolta, una data che condizionerà il suo emergere ed il suo imporsi sulla scena politica del Paese.
Quella data è il 12 dicembre 1969: il giorno della strage di piazza Fontana a Milano.
Negli anni immediatamente precedenti la strage era cresciuto in Italia un movimento politico nuovo, quello del ’68, formato da una generazione di studenti, ma anche di operai, che aveva come primo punto all’ordine del giorno la crescita politica del movimento stesso, l’elaborazione delle strategie necessarie a pervadere l’intero tessuto della società.
La bomba che esplode in una banca nel pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969 - e che strazia i corpi di tanti innocenti – pone al movimento che sta crescendo un problema del tutto nuovo: non più la sua crescita politica, il suo indirizzo riformista o rivoluzionario, ma la sua autodifesa.
Il 12 dicembre 1969 sulla scena della vita sociale italiana irrompe un fantasma: il fantasma del golpe, l’idea che il potere, con la P maiuscola, sia in grado di mettere in campo tutta la sua forza per contrastare ogni tentativo di cambiamento o soltanto di rinnovamento.
L’idea di svegliarci un mattino con i carri armati sotto casa oggi può fare solo sorridere.
Così non era in quegli anni quando il laboratorio della strategia della tensione era già in funzione.
Così non fu dopo quella maledetta strage.
Sono proprio la paura del golpe, la possibilità di dover fronteggiare una reazione drastica e violenta del Potere – il colpo dei colonnelli in Grecia, Spagna e Portogallo ancora sotto dittatura fascista – che fanno maturare in settori limitati e ristretti dell’estrema sinistra la necessità di armarsi e di costituire gruppi clandestini pronti ad una nuova resistenza. Quella che ad alcuni sembrerà una mera necessità, con il tempo si trasformerà in un’altra idea ancor più pericolosa: la possibilità che esista in politica una scorciatoia, quella - appunto - della lotta armata.
Ecco spiegato - in estrema sintesi - il perché, proprio tra la fine del ‘69 e l’inizio del ’70, nascono in Italia i primi gruppi terroristici.
La prima formazione armata italiana nasce a Genova da un Circolo frequentato da giovani operai e proletari. Si chiama XXII Ottobre. Quasi contemporaneamente a Milano si formano i GAP (Gruppi di azione partigiana) voluti da un ricco editore, uscito dal PCI dopo i fatti di Ungheria del 1956: Giangiacomo Feltrinelli.
Si tratta di due minuscole formazioni che avranno vita brevissima. Ma dopo sarà il diluvio: nasceranno le Brigate rosse che concluderanno la loro parabola solo nel 1988 (con una coda ancora misteriosa nel 1999 con l’omicidio D’Antona); spunteranno al sud i NAP e poi, soprattutto al nord, Prima Linea. Fino alla galassia del terrorismo diffuso.
In questa pagina raccontiamo le storie di queste formazioni armate.
E le storie delle loro imprese e dei loro delitti. 

Genova e Milano sono le città in cui per prima attecchisce la pericolosa pianta della lotta armata italiana. I primi gruppi eversivi che hanno matrice di sinistra sono nel capoluogo ligure il gruppo XXII Ottobre e in quello lombardo i Gruppi di Azione Partigiana (GAP).
Si tratta di formazioni ristrette (complessivamente verranno inquisiti appena 87 militanti), che avranno vita brevissima (la loro parabola si concluderà nel 1972), che si limiteranno per lo più ad imprese di carattere dimostrativo e di autofinanziamento, ma che lasceranno sul campo anche sangue e lutti.
Ciò che accomuna la XXII Ottobre ai GAP, oltre all’ossessione del colpo di stato, è la comune ispirazione al periodo della Resistenza al nazi-fascismo.

Sono stati - e sono destinati a restare - i 55 giorni più misteriosi dell’intera storia dell’Italia repubblicana. Ancora oggi, a distanza di più di vent’anni, soltanto rievocare il caso Moro vuol dire preparasi ad entrare in un ramificato tunnel di segreti e interro- gativi, di domande senza risposta e di inconfessabili trame. Il tempo che corre non solo ci allontana dalla completa verità sulla strage di via Fani, la lunga detenzione di un uomo politico di primo piano e la sua orrenda fine, ma rende tutto più complesso. Il trascorrere degli anni che sempre più ci fa apparire lontano quel tragico evento, anziché semplifi- care il quadro di insieme della vicenda, tende ad aggiungere nuovi tasselli ad un mosaico che appare ormai infinito. Aldo Moro, presidente della DC, per almeno vent’anni personaggio centrale della politica italiana, viene sequestrato da un commando delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, alla vigilia del voto parlamentare che – per la prima volta dal 1947 - sancisce l’ingresso del partito comunista nella maggioranza di governo. Per rapirlo la sua scorta, composta da cinque uomini, viene sterminata. Il gruppo armato che s’impadronisce di Moro afferma di volerlo processare, per processare  tutta  la Democrazia Cristiana, forse addirittura non rendendosi conto di aver gettato sulla scena politica nazionale una bomba ad

Cristiana, forse addirittura non rendendosi conto di aver gettato sulla scena politica nazionale una bomba ad alto potenziale. I 55 giorni in cui Moro sarà detenuto in un "carcere del popolo" apriranno infatti una serie di enormi contraddizioni in seno all’intera classe politica italiana, mentre i brigatisti finiranno col dimostrarsi – con i loro documenti miopi e vetusti - completamente avulsi dalla realtà storica del paese.
La fine di Moro è nota: il 9 maggio 1978 Mario Moretti, capo dell’orga- nizzazione armata, lo ucciderà, "eseguendo la sentenza", così come scritto nell’ultimo comunicato delle BR. Quel colpo di pistola, con tanto di silenziatore, risulta assordante
ANCORA OGGI

 

 

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