Responsabilità sociale e d’impresa: responsabili si, ma di che cosa?

Dagli anni Cinquanta- da quando, cioè, si è iniziato a parlare di responsabilità sociale d’impresa- ad oggi, è stato un fiorire di studi sul tema. Ad un tratto, sembra che le imprese si siano scoperte responsabili e che abbiano preso a cuore temi quali il rispetto dei diritti umani, la tutela dell’ambiente, la sostenibilità . […]

 

Dagli anni Cinquanta- da quando, cioè, si è iniziato a parlare di responsabilità sociale d’impresa- ad oggi, è stato un fiorire di studi sul tema. Ad un tratto, sembra che le imprese si siano scoperte responsabili e che abbiano preso a cuore temi quali il rispetto dei diritti umani, la tutela dell’ambiente, la sostenibilità . Ma il rischio che si tratti dell’ennesima trovata di marketing è dietro l’angolo.Erano i lontani anni Cinquanta quando l’economista statunitense Howard Bowen, per la prima volta, introdusse nella letteratura aziendalistica il concetto di Responsabilità sociale d’Impresa (in inglese Corporate Social Responsibility), definendola come “gli obblighi degli uomini di affari di perseguire quelle politiche, prendere quelle decisioni, o seguire quelle linee di azione auspicabili in termini di obiettivi e valori della nostra società”. Definizione questa che gli valse il titolo di “padre” della Corporate Sociale Responsability, ed è così che la maggior parte dei testi universitari e non si riferiscono all’economista, come se realmente il tema fosse stato interamente partorito dalla sua mente.

Se a Bowen si deve una definizione sistematica, è pur vero che il dibattito sulla responsabilità degli uomini di affari e sul ruolo delle imprese ha origini risalenti. Negli Stati Uniti, già a partire dagli anni Venti del secolo scorso, l’opinione pubblica americana iniziò a esercitare forti pressioni nei confronti del mondo industriale e degli uomini di affari per denunciare le condizioni abitative, di salute e di sicurezza previdenziale dei lavoratori. Lo scopo di queste rivendicazioni era quello di indurre la classe imprenditoriale ad assumere una maggiore responsabilità orientata  allo sviluppo delle prime forme di welfare aziendale. E ancora prima che la rivoluzione industriale, con le profonde trasformazioni della società ad essa connesse, desse un nuovo volto alle imprese, ridefinendone il ruolo, l’operato delle aziende e il riflesso delle loro azioni sull’ambiente circostante è sempre stato al centro di un dibattito animato.

Fin dai tempi antichi, questioni inerenti al comportamento etico e alla moralità sono state oggetto del pensiero filosofico.  Aristotele nell’Etica Nicomachea condusse alcune riflessioni sulla relazione tra giustizia e valore di scambio. La relazione tra etica e interesse personale è invece stata approfondita dal padre della moderna economia, Adam Smith, nella sua opera Teoria dei sentimenti morali del 1759. Il pensiero di questi, nel tempi, è stato a tal punto male interpretato che tutta la sua riflessione economica è finita per essere riassunta in un unico- errato- assunto secondo cui gli uomini sarebbero mossi esclusivamente dall’ interesse personale. In realtà, nell’opera del 1759 Smith afferma che la prudenza è la virtù più utile all’individuo ma anche che “l’umanità, la giustizia, la generosità e lo  spirito pubblico (public spirit) sono le qualità più utili per gli altri”.Secondo Sen, grande studioso del pensiero di Adam Smith ed egli stesso economista di primo piano: «Un’economia di  mercato per essere di successo richiede diversi valori che includono la fiducia  reciproca e la fiducia nell’altro».

Domande quali: “ La responsabilità degli uomini d’affari è circoscritta al solo rispetto delle leggi vigenti o anche i valori etico-sociali dovrebbero trovarvi posto? Qual è il ruolo dell’impresa nella società? Dovrebbe contribuire allo sviluppo sociale o è un compito che spetta esclusivamente alle istituzioni?” non cessano di arrovellare le menti di giuristi, economisti e di tutti coloro che, a vario titolo, pensano di avere qualcosa da dire riguardo la responsabilità sociale d’impresa. La definizione che meglio si avvicina al modo di intendere la responsabilità sociale d’impresa oggi è quella offerta dal World Business Council on Sustainability Development, che può essere riassunta come il tentativo di un’impresa di contribuire allo sviluppo sostenible, tramite il coinvolgimento degli operatori, delle loro famiglie, della comunità locale e della società con il fine di migliorare la qualità della vita. In quest’ottica la responsabilità sociale d’impresa è associata alla crescita economica e ai temi ambientali per contribuire allo sviluppo sostenibile.

Viene dunque messo in discussione l’assunto classico che ha dominato la teoria economica fino al secolo scorso, secondo cui il ruolo delle imprese è esclusivamente quello di produrre profitto e quindi ricchezza. Oggi le imprese si fanno portatrici di valori che vanno aldilà  della mera utilità economica: rispetto per l’ambiente, sicurezza dei lavoratori, ecologia,… Sono sempre di più le aziende che pubblicano, accanto al bilancio economico obbligatorio per legge, un bilancio sociale. Molte altre si trovano impegnate in iniziative sociali o ambientali di vario genere. C’è chi, poi, accanto alle linee di prodotti tradizionali, ha affiancato prodotti ecologici, ecocompatibili o equo solidali. Sembrerebbe che nel mondo degli affari sia in atto una vera e propria rivoluzione nel modo di fare impresa. Alla fredda logica del profitto si sta via via sostituendo una nuova spiccata sensibilità e una visione etica degli affari, che fino a qualche tempo fa era appannaggio esclusivo delle imprese no-profit.

In tutto ciò viene spontaneo domandarsi quanta sincera adesione ai valori etico-sociali vi sia da parte delle imprese che si proclamano socialmente responsabili. E qui, ci viene in aiuto la realtà, nazionale e internazionale, con i suoi numerosi casi.  Imprese che chiudono e delocalizzano spostando all’estero la propria visione responsabile, o che utilizzano manodopera asiatica a basso costo, e fanno in Occidente pubblicità sociali che tanto ricordano quelle di Oliviero Toscani. Imprese che affermano di possedere una posizione preminente nel trattare questioni di carattere ambientale e di crescente pertinenza sociale, ma non esitano a tagliare i salari per ridurre i costi.

Quando si legge un bilancio sociale o un codice etico di una qualsiasi impresa socialmente responsabile, si ha l’impressione di trovarsi di fronte alle promozioni 3×2, o ai manifesti a caratteri cubitali titolanti “svendita totale”. Un bel modo per attirare l’attenzione del consumatore distratto da troppi stimoli. Come a dire “ehi tu, guarda io sono buono perché il tuo shampoo lo metto in un flacone riciclabile, o perché assicuro il salario minimo ai lavoratori del Bangladesh”. Il consenso che si ricerca non è solo quello dei consumatori mainstream. Negli ultimi tempi c’è un nuovo segmento di mercato, costituito dai consumatori critici, quelli per capirci che boicottano le multinazionali o che comprano rigorosamente biologico. Anche questi consumatori devono essere attratti tramite mirate campagne di marketing, e a queste la responsabilità sociale d’impresa, con i suoi miraggi, fa l’occhiolino.

 E’ una gara tra i vari aziendalisti, giuristi e studiosi delle più disparate discipline a chi elabora la forma migliore e più buona di impresa, che contempli il rispetto dei diritti fondamentali e  l’ascolto delle istanze degli stakeholder. E tutti a dare addosso a Friedman, tacciandolo di essere un misantropo. Ma quando Friedman affermava che “l‘unica responsabilità dell’impresa è generare profitto nel rispetto delle leggi” diceva forse qualcosa di totalmente estraneo alla realtà?

Business are business. Sempre e comunque. E’ difficile pensare a un’impresa che non massimizzi il profitto, o che metta il profitto al secondo posto, dopo valori quali la solidarietà, il rispetto per l’ambiente e- perchè no- la pace nel mondo. E’ difficile persino immaginare che il profitto possa essere generato in modo responsabile. Basta la prima difficoltà, una contrazione delle vendite, una congiuntura internazionale particolarmente sfavorevole, l’aumento di una delle materie prime , un aumento della pressione fiscale che tutti i buoni propositi vanno in fumo. Ed ecco, feroce, tornare la corsa al profitto calpestando i diritti più elementari, la dignità dei lavoratori. Una responsabilità a intermittenza, perché funziona male o perché non funziona sempre.

inserito da domenico marigliano blogger

 

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