PERCORSI RIVOLUZIONARI LIBRO SCRITTO DA ROBERTO MIRANDA

Percorsi Rivoluzionari



Miranda Roberto

 

 

  

segretario nazionale del Movimento Italia Sociale

 


INDICE

Prefazione di Giuseppe Tricoli

I - La speculazione sul bisogno

II - Un sindacato contro l’isolamento

III - La Battaglia per lo ZEN

IV - Prime solidarietà:Almirante e Vitocolonna

V - Nuovi tentativi di violenza istituzionale

VI - La ripresa della lotta

VII - ZEN 2

VIII - Un raggio di sole

IX - La lotta continua



PREFAZIONE

Nel presentare queste pagine di Roberto Mitranda su uno degli aspetti più drammatici dell’attualità palermitana, la mia riflessione non è tanto sollecitata dalla ricerca delle motivazioni che mi hanno convinto alla loro pubblicazione, quanto dallo sforzo di focalizzare in un quadro concettuale il tumulto dei sentimenti e la somma delle esperienze umane e politiche da me personalmente vissute in questi ultimi anni, in una sorta di “vita nova” quale è nata nella mia coscienza politica ed umana, nel rapporto e nel contatto continuo e costante con l’umanità dolorante e drammatica del popolo palermitano.

Se per cultura s’intende non un’astratta esercitazione retorica, ma un patrimonio intellettuale, sentimentale e morale dell’uomo che si forma e si arricchisce con lo scambio delle umane esperienze, io credo che la motivazione prima di queste righe sia proprio nella loro violenza culturale, nel prospettarsi, cioè, come strumento di lievitazione e di dilatazione della coscienza storica e politica – al di là degli schemi stereotipi e falsi- nel momento in cui si attingono realtà antiche e tuttavia attuali, anche se frettolosamente rimosse, nella coscienza collettiva, dalla visione artificiale e consolatoria della società del benessere e del consumo. Ricordare quelle esperienze significa per me ripercorrere l’inter formativo di una nuova coscienza e trrasmetterne gli echi al lettore, perché possa avere un ulteriore elemento di riflessione, al fine di ricomporre in un quadro più articolato e completo la visione della nostra realtà, in quella palermitana in particolare.

Nel gennaio del 1985, appena reinvestito, a distanza di venticinque anni, della responsabilità di guidare il MSI – DN palermitano, quella umanità dai segni drammatici – nei gesti, nei volti, nelle parole – che, al seguito di Roberto Miranda, stringeva attorno a me, nella sede della locale Fedrezaione, mi sembrò usciredalle polverose pagine di una delle tante cronache dei tumulti cittadini del 1647 o della sollevazione della plebe palermitana del 1866, quasi che nel tempo si fosse improvvisamente fermato, per un curioso scherzo della memoria, che quella società si fosse cristalizzazta e quasi imbalsamata, per un sottile gioco della fantasia.

A simiglianza di un secolo fa, di tre secoli fa, di tanti secoli fa, la plebe palermitana era uscita dall’oscurità dei tuguri della città “murata “, al di là delle cortine, una volta magnificenti e magniloquenti, del Cassaro e della via Maqueda, per bussare ancora alle porte della Storia, far riconoscere la propria presenza, gridare il proprio diritto alla vita. Era una sortita che adesso si poneva non soltanto nei termini di una rivolta in piazza, di una furia distruttiva ed iconoclasta, quanto di un vero e proprio esodo biblico di centinaia di nuclei familiari, in fuga dai “bassi” fetidi, infetti e pericoloanti del centro storico, verso quel miraggio di “civiltà “ e di “ benessere “ rappresentato dai nuovi quartieri popolari della banlieu palermitana – allucinanti, falansterici, squallidi, da anni costruiti e non completati, privi di servizi, di rete idrica, fognante ed elettrica, ma pur guardati come oscuri oggetti di desiderio, di sogno, da un’umanità rimasta nella preistoria.

Sull’immobilismo delle istituzioni comunali, intrigano di insensibilità e di affarismo, come scrive Miranda, sulla decomposizione della città si era imposto, gridato con la disperazione, il diritto alla vita di migliaia di palermitani che avevano occupato le case nuove, rompendo clamorosamente quegli schemi formali, burocratici e giuridici che, in nome dell’ordine civile, avrebbero dovuto tutelarli.

Si trattò, per me, di impatto improvviso e violento con una realtà nuova che scatenava nella coscienza politica e culturale un lacerante conflitto tra la mia nozione dello Stato, delle istituzioni, dell’ordine civile – un composto ed armonico quedro gentiliano di derivazione hegeliana – e quella realtà umana e sociale che, con i suoi diritti, con i suoi bisogni, non poteva essere ripudiata, scacciata, condannata alla morte civile, come del resto avevano sentenziato i partiti, i sindacati, le associazioni del regime.

Risposi subito a me stesso, dopo bereve riflessione, che quello Stato, quel.le istituzioni, quell’ordine civile, cui ero stato educato negli anni della mia adolescenza e della mia formazione spirituale non esistevano più, consunti, dopo quarant’anni, dal cancro della partitocrazia, dilaniati dagli interessi particolaristici, come del resto veniva ampiamente testimoniato, proprio in quei giorni drammatici, tra la fine dell’84 e gli inizi dell’85, a Palermo, dove la crisi delle istiuzioni – con l’autosciolglimento del Cosiglio comunale – si manifestava come l’espessione di un immondo impasto di mafia, affarismo, insensibilità.

Iniziò così un lungo, paziente, sottile lavoro di una molto complessa trama culturale, politica, attivistica, rivolta, da un lato, a tentare il recupero nelle istituzioni, nelle altre forze politiche, sindacali e sociali – in una città per decenni resa vitrea dall’egoismo, dall’interesse particolare, dal disprezzo, dalla violenza – della sensibilità, dall’attenzione, della solidarietà di quella gente, come gli emarginati dello ZEN, che per viver civilmente avevano dovuto paradossalmente infrangere gli schemi dell’ oerdine civile. Una trama che, per altro verso, si tesseva pazientemente per ricomporre il tumulto degli animi, dei bisogni, delle lacrime, delle rabbie di quell’ umanità dolorante nell’ordito istituzionale.

Nelle pagine del Miranda si avvertono gli echi qi questo complesso lavoro politico che ha posto il MSI - DN palermitano in un ruolo ufficiale ma esaltante di mediazione tra il ceto civilmente più emarginato della città e i vertici istituzionali dello Stato, della Regione e del Comune. Ripercorrerne le fasi significherebbe riscrivere la vicenda degli occupanti dello ZEN, sia pure sotto altra angolazione: una fatica che, oltre ad apparire, sotto molti aspetti, ripetitiva, sarebbe superflua, perché il valore, il significato vero di questa vicenda palermitana - un’illuminante parabola – è tutto consegnato nella prosa di Roberto Miranda – con genuina espressione popolare – icasticamente traduce – meglio di ogni alambiccata riflessione intellettuale e di un’aulica forma letteraria – l’ansia profonda, l’aspirazione sofferta di una vasta fascia emarginata della popolazione palermitana verso una dimensione civile per lungo tempo preclusa da una mafia che, per dirla con una citazione eccellente, ha avuto il “ volto delle istituzioni “.

Nell’ultimo festival del Cinema di Venezia, la rassegna cinematografica è stata aperta da un film- documentario che, a distanza di tant’anni, ha portato alla conoscenza universale la vicenda drammatica dello ZEN: senza cascami estetizzanti e compiacimenti neo- realistici, ma con un profondo sentimento di pietà e con forte tensione civile, il MSI – DN palermitano ha saputo dare subito alla più sofferente società palermitana una risposta di comprensione e solidarietà che è stata anche una profonda intuizione politica sul modo come deve essere gestito il rinnovamento delle istituzioni nel rapporto con la società civile.

Giuseppe Tricoli

Palermo, febbraio 1989



I – La Speculazione sul bisogno

Questa seconda metà degli anni ’80 è stata definita come il periodo della “emergenza Palermo “ . In realtà, l’emergenza dura nella nostra città da ormai più di quaranta anni e attraversa tutto questo lungo dopoguerra: dai bombardamenti e dalla sofferenza fino alle vicende di questi ultimi anni di piombo, il sangue, di affarismo che si ripercuotono duramente sulla popolazione più bisognosa e indifesa. E’ significativo, inoltre, che questi tre momenti drammatici siano segnati da una forte “tensione abitativa “: nell’immediato dopoguerra essa si risolse con il trasferimento dei ceti borghesi del centro storico, danneggiato dagli eventi bellici, verso i nuovi quartieri residenziali; nel 1968, essendo stata ulteriormente colpita dagli eventi sismici la vecchia Palermo, i ceti indigenti ivi rimasti ad abitare determinano il fenomeno delle occupazioni delle case popolari costruite fuori della antica cintura urbana; nel gennaio del 1985, infine, a causa dell’ukteriore degrado del centro storico, causato dall’azione distruttiva del tempo e delle intemperie e dall’assenza di interventi risanatori da parte dell’amministrazione comunale, si verifica una nuova impetuosa fuga dai quartieri antichi, con la conseguente occupazione abusiva degli alloggi popolari del quartiere ZEN.

L’ occupazione di tali alloggi, costruiti su ambiziosi progetti dell’Istituto Autonomo Case Popolari, che aveva affidato i lavori di progettazione all’arch. Gregotti, sboccava una situazione amministrativo – politica a dir poco paradossale. A Palermo i disegni di largo respiro, le migliori intenzioni si scontrano sempre con una prassi amministrativa e politica paralizzante ed avvilente. La costruzione degli alloggi era iniziata otto anni prima, ma essa non era stata completata a causa delle beghe, delle mire clientelari ed insomma dei mille motivi di una politica di bassa cucina elettorale che ha sempre caratterizzato il comportamento degli amministratori palermitani che dal dopoguerra hanno l’egemonia su Palazzo delle Aquile.

Dopo tanti anni non si era provveduto ancora a dotare gli appartamenti dei servizi urbani primari e secondari, di fognature, strade, allacciamenti idrici, energetici: l’immobilismo veniva giustificato con il paravento di capitolari d’appalto non rispettati, con la scusa della mancata realizzazione dell’impianto di depurazione e così via. Il depuratore non nasceva mai, tutto il quartiere sopravviveva con la rete fognante volante, da cui spesso sgorgava melma fetida che inondava il quartiere dove, pertanto, la vita , si fa per dire,si consumava tra polemiche all’interno del quartiere stesso, tra lo ZEN 1 e lo ZEN 2, con gli altri quartieri limitrofi e marini di Sferracavallo e Mondello. E tutto rimaneva fermo, con appartamenti costruiti ma non definiti e perciò non assegnati ai bisognosi, mentre nel centro storico fatiscente migliaia e migliaia di famiglie continuavano a vivere in ambienti malsani e insicuri.

Lo ZEN era stato costruito da diverse ditte, che avevano vinto gli appalti dei vari lotti, la “ Così ” , la “ Ravennate “, la “ Geraci “, la “ Cooperativa Sicilia “, la “ Cons. Coop Forlì “, la “ Cosedin Tosi “, la “ Percopo “, la “ Edilstrade “, la “ Vitolo “. A tali ditte competeva la definizione dell’interno quartiere, ma due di esse, la “ Cosedin “ e la “ Percopo “, non avevano portato a compimento la costruzione di ben sette padiglioni per un totale di quasi mille alloggi . La stessa “ Percopo “ era poi fallita, lasciando lo scheletro di un intero padiglione sito nella via PV 12 dal n.17 al n.19: e si trattava di una struttura portante del quartiere perché progettualmente ricca di servizi ausiliari. La “ Cosewdin “, poi, non aveva costruito sei interi padiglioni che figuravano nella planimetria del quartiere e la stessa “ Ravennate” non aveva consegnato un padiglione. A tutto ciò si deve aggiungere l’enorme truffa, celata dagli amministratori per motivi certamente inconfessabili, se non di vera e propria complicità, costituita da complessi edificabili con materiali di scarto e di risulta, recuperati chissà dove, con muri di cartone e pavimenti di plastica.

L’occupazione compiuta da una popolazione misera, proveniente dai fetidi catoi del centro storico, pur nell’illegittimità di una condizione determinata però dal bisogno della sopravvivenza, finiva con il mettere allo scoperto ben altre illegittimità:quella degli speculatori e di certi imprenditori edili, quella degli amministratori del Palazzo delle Aquile, gli uni e gli altri certamente in combutta per realizzare illeciti guadagni sulle sofferenze della parte più diseredata ed indigente del popolo palermitano.



II – Un sindacato contro l’isolamento

Ma queste italiche istituzioni, specialente palermitane, quando non sono esse stesse, con la complicità, gli immobilismi, il parassitismo, la fonte della illegittimità, riescono a scoprire la forza della legge soltanto con i deboli e i disederati.

Mentre per anni avevano tollerato i ritardi, le violazioni dei capitolati, le truffe che avevano caratterizzato i lavori per la costruzione degli alloggi popolari, mentre continuavano, ancora nel 1985, ad andare per le lunghe le procedure del concorso per l’assegnazione di case popolari bandito fin dal 1979, adesso, improvvisamente, queste stesse “autorità” palermitane si svegliavano per far risentire la loro voce minacciosa nei confronti di migliaia di derelitti che avevano abbandonato, nel corso di un inverno riparo in case prive di luce, di acqua, di gas, di scarichi, ma perlomeno con un tetto più sicuro sotto cui ripararsi senza essere minacciati dalle intemperie o assaliti dai topi. Di fronte alle continue minacce di un intervento militare delle fotze di polizia, per operare lo sgombero di migliaia e migliaia di persone, che, assieme alle loro misere masserizie, non avrebbero potuto che accamparsi sotto il cielo nudo, per mancanza di alternative, ecco prendere corpo l’idea do organizzare in un nuovo fronte sindacale questa massa enorrme di disoccupati e senza tetto, lavoratori precari, respinti come reprobi non solo dalle istituzioni, ma anche dai patiti di massa e di regime, dai sindacati confederali e di categoria.

Abitare nello ZEN 1 e con un passato di esperienze di lotte politiche negli ambienti giovanili di un M.S.I. emarginato, posto fuori dall’, combattuto dalla vioenza istituzionale del regime e da quella terroristica della piazza rossa, fin dal primo momento, con la mia sensibilità politica e umana, ero rimasto scosso da questi movimenti di masse disederate che, spinte dalla disperazione, avevano trovato rifugio nelle case incomplete e prive di servizi, ma, ripeto, pur dotate di un tetto, dell’allucinante ZEN 2. Questo incontro tra me giovane, ma già vecchio emarginato dal regime, e i mille e mille nuovi emarginati dal corrotto sistema politico palermitano era, pertanto, inevitabile, ed infatti si realizzava come un’autentica fusione tra la mia visione di giustizia sociale ed il disperato bisogno dei cosidetti abusivi.

Privo di mezzi, senza sapere cosa avrei potuto fare, come da solo avrei potuto difendere quella massa dalle violenze del regime, come avrei potuto agire, il 20 gennaio del 1985 fondai il Sindacato del SIPODISE – Sindacato popolare disoccupati e senza tetto – formatosi nel fermento di una lotta popolare senza precedenti e da me presieduto per volontà comune. Si fondevano la mia disperata volontà, la sete di giustizia sociale e il bisogno di migliaia dei derelitti.

Fin dal primo momento vollì affrontare questo nuovo tremendo impegno senza farmi condizionionare dalle mie precedenti esperienze politiche, poiché l’obiettivo principale era, per me, portare al successo la causa di questa gente derelitta. Diedi, pertanto, al SIPODISE una struttura sindacale assolutamente indipendente da ogni forza politica, anche per rispettare la volontà della gente che, pur proveniente da svariati e diverse esperienze e motivazioni politiche, si era affidata a me a uno con le loro stesse ansie ed esigenze.

La forza del sindacato si registrò subito nella sua volontà fermissima di lotta unitaria e decisa. La strategia era quella di sensibilizzare soprattutto le Autorità statali – il Prefetto, il Questore, la Magistratura – certamente estranee a quell’infame impasto di interessi, di complicità, di ritardi voluti, di compromessi, propri delle autorità comunali, che avevano portato a quella situazione dii degrado e di disperazione degli ambienti più bisognosi della città, alfine costretti, per un elementare bisogno di sopravvivenza, al colpo di mano della occupazione abusiva degli alloggi popolari che, da gran tempo costruiti, non erano stati completati e, perciò, rimasti inutilizzati, mentre la povera gente moriva di freddo, di crolli, di infenzioni, nei tuguri e nei catoi del centro storico. Ma questa maggiore attenzione del Sindacato verso le autorità statali che ritenevamo dovessero essere, e non ci dovevamo sbagliare, più sensibili ai nostri problemi, non escludeva a priori la nostra richiesta di sostegno e di solidarietà nei riguardi delle altre forze locali: i partiti, i sindacati confederalie di categoria. Si iniziò così un lavoro giornaliero di sensibilizzazione attraverso la stampa, le manifestazioni di piazza, i manifesti e il materiale propagandistico e poi tantissime trafile per sollecitare incontri con le Autorità.



III – La battaglia per lo Zen

Com’era, però, prevedibile, le forze locali erano tutte coinvolte, in un modo o nell’altro, in quello che abbiamo chiamato il sistema palermitano. Troviamo ovunque le porte chiuse, a volte scacciati come cani rognosi, guardati con sospetto, mentre dietro di noi c’era tutta una immensa umanità dolorante fatta di migliaia e migliaia di persone: gente, donne, bambini, con i loro mille problemi quotidiani, i dolori, le sofferenze, la paura e la speranza, che vivevano con l’incubo di essere scacciati, con la violenza delle istituzioni, da quel tetto che erano riusciti a conquistarsi con le unghie e con i denti. Solo la segreteria provincialen del M.S.I. – D.N. di Palermo risponde alla richiesta di un incontro che avviene nella sede della Federazione Provinciale di Piazza Castelnuovo con il segretario provinciale, on.Giuseppe Tricoli, a cui viene prospettata la situazione disperata degli abusivi. Leggo negli occhi del professore Tricoli la perplessità circa la decisione non personale, ma coinvolgente la responsabilità di un intero partito, a dare sostegno ad una causa, priva inizialmente di un solo supporto di legittimità formale, per la quale è prevedibile già un totale isolamento. Ma, alla fine, sulle preoccupazioni politiche, risultava vincente, nell’animo del ptrofessore Tricoli, il sentimento di umanità, di solidarietà verso quei volti ansiosi e disfatti, segnati dal travaglio quotidiano, di quella moltitudine sofferente e alla ricerca di un gesto di conforto e di amicizia. Si concorda, pertanto, che il M.S.I. - D.N. di Palermo avrebbe offerto il proprio appoggio politico nelle istituzioni – all’Assemblea Regionale Siciliana, nel Consiglio Comunale, in Parlamento, presso le varie Autorità – mentre rimane assolutamente autonoma l’iniziativa del SIPODISE di decidere le forme di lotta più producenti che, comunque, avrebbe dovuto sempre conformarsi ai principi della non violenza.

Tutte le altre forze poltiche e i sindacali si schieraono, invece, contro il SIPODISE e premono sul Comune, sul Prefetto, sul Questore perché intervengano con la forza per operare lo sgombero degli alloggi occupati abusivamente.

Inizia così un vorticoso carosello giornaliero di sgomberi operati dalla polizia e di rientri quasi immediati degli occupanti negli alloggi, masserizie che vengono buttate dai balconi e che rientrano dalle porte, scontri e bastonature, fermi, arresti. La tensaione di qei giorni sbocca in un grosso corteo di migliaia di persone che sfila per le strade della città, unito e compatto. Un giorno di quel rigido inverno del 1985, la polizia accerchia lo Zen 2, che resiste col suo muro umano, la tensione cresce sempre più, mentre gli occupanti, secondo le loro tradizionali appartenenze politiche e sindacali, fanno continue richieste telefoniche di intervento a loro favore da parte delle forze politiche e sindacali. Ma nessuno risponde.Gli abusivi di antica fede comunista, che ancora avevano fiducia nei lori compagni, chiamano i fratelli Giardina, sindacalisti comunisti del quartiere, perché li aiutano, ma il P.C.I. non risponde, chiude loro le porte in faccia. Viene chiamato in aiuto il prete della Parrochia dello ZEN 1, padre Gallizzi, che risponde che la Chiesa “ non c’entra in queste cose “. La gente sembra ormai stanca e sfiduciata, ma i giovani del Sindacato, con in testa Presidente, con slogans e parole di incitamento incoraggiano e galvanizzano la popolazione. Verso mezzogiorno, il commisario di polizia, dopo lunghe ore di attesa tattica, si accinge ad ordinare la carica, ma fortunamente, in quel momento avvertito la situazione, arriva tutto intero il gruppo dirigente della Fedrezioneprovinciale del M.S.I. , con in testa l’onorevole Tricoli. Il capo del M.S.I. – D.N. di Palermo inizia così una lunga trattativa con i funzionari delle forze dell’ordine e contemporanamente si preoccupa di sedare gli animi più eccitati dei manifestanti. A questi ultimi raccomanda moderazione, fiducia nella mediazione politica, mentre cerca di convincere i primi che non è certamente con i sistemi di Bava Beccaris o di un Morra di Lavriano che si potrà risolvere il problema della legalità a Palermo, quando l’illegalità vera per anni si era annidiata nelle istituzioni, in quella comunale principalmente; una illegalità che aveva prodotto quella situazione incandescente. Era un messaggio chiaramente rivolto alle più alte autorità del governo a Palermo, indirizzato alla riflessione razionale, all’opportunità politica, al senso di umana, sociale solidarietà. In una città sconvolta dall’arbitrio di certa classe politica, dall’emergenza della criminalità mafiosa, era opportuno sbattere in prima pagina Palermo per un’operazione di polizia che si abbatteva violentemente su decisione di migliaia di poveretti che difendevano un tetto conquistato a duro prezzo e con tanti sacrifici? Come per miracolo – e saggia fu la decisione del Prefetto e del Questore – l’assedio ebbe termine. Da quel giorno la tensione si allentò, non vi furono tentavi di sgombero né più scontri con la polizia.



IV – Prime solidarietà: Almirante e Vitocolonna

Di lì a pochi giorni si ebbe la visita dell’on. Giorgio Almirante, segretario nazionale del M.S.I. – D.N., unico segretario nazioale di un partito che abbia visitato l’intero quartiere, il quale toccò con mano le piaghe di quella situazione, vivendo lo squallore, la desolazione di un quartiere che un popolo voleva far vivere. Almirante si recò, accompagnato dall’on.Tricoli, dai dirigenti del partito M.S.I. – D.N. e del SIPODISE , in tutti quartieri occupati: Borgo Nuovo, Falsomiele, Bonagia ed altri. Comiziò in tutti i quartieri, rincuorò l’intero popolo con la semplicità e la schietezza che lo contraddinstimguevano. Il popolo dimostrò un grande trasporto emotivo e un rispetto particolare verso l’uomo politico che, in una particolare situazione di bisogno, l’aveva capito e sorretto. La visita di Almirante urtò la siscettibilità dei partiti di regime che ripresero con insistenza le loro infami manovre per ottenere lo sgombero non solo dello ZEN 2, ma di tutti i quartieri occupati. Intanto, però, la torbida situazione politica del Comune di Palermo aveva prodotto lo scioglimento del Consiglio Comunale della Città Palazzo delle Aquile si era insediato il Commissario Straordinario nella persona del Prefetto S.E. Vitocolonna. Il Commissario straordinario, dopo tante richieste, finalmente accettò un incontro con una delegazione del SIPODISE che avvenne a Palazzo Delle Aquile: in tale occasione il prefetto Vitocolonna fu invitato graziosamente a venire a prendere una tazza di caffè allo ZEN 2. Vitocolonna, persona molto leale, un uomo con alto il senso dello Stato e allo stesso tempo tenace e coraggioso, accettò l’invito con il proposito di conoscere meglio la situazione degli abusivi. La sua visita sensibilizzò l’opinione pubblica e lo stesso governo nazionale al grave problema dello ZEN e degli occupanti di Palermo. Vitocolonna, accolto da un omaggio floreale dei bambibi dello ZEN 2, visitò l’ intero quartiere, rendemdosi conto della triste realtà di quella zona priva di tutto, toccò il dramma della casa, che amministrazioni insensibili avevano causato, non assegnando alloggi di edilizia poplare e lasciando morire il centro storico della città. Il Commissario Straordinario delComune volle prendere visione delle pratiche dei tanti occupanti che allo ZEN erano pervenuti in seguito a sfratti esecutivi e amministrativi, si interessò dello stato igienico del quartiere, visitando la rete fognante e il depuratore. Si informò delle famiglie numerose, si interessò delle famiflie che avevano nel loro seno portatori di handicaps, constatò le truffe realizzate dalle imprese costruttrici degli alloggi polari, con i muri divisori di cartone e i pavimenti di plastica. Si chiese stupito come mai allo ZEN I non ci fossero centri ambulatori, anche se i propgetti e i miliardi erano stati finanziati. Ebbe parole dure contro i responsabili dell’inerzia che aveva portato alla mancata definizione degli alloggi e si impegnò davanti a un popolo, che giornalmente sulla sua pelle toccava le carenze amministrative dei politici arruffoni e inetti, a deliberare perché venissero al più presto eseguiti i lavori pubblici nel quartiere e nella circonvallazione. Alla fine della visita fu offerto, negli uffici del Sindacato, un coktail, preparato dai barmans che abitavano nel quartiere. Dopo appena una settimana dalla visita del Commissario Straordinario del Comune, in parte dello ZEN 2 vennero eseguiti dei lavori che si erano appalesati di maggiore urgenza: le strade vennero liberate dalle immondizzie, dal fango, dai materiali di risulta e furono asfaltati e rese praticabili. Altri provvedimenti del Commissario straordinario a favore dello ZEN vennero invece bloccate dalla Commissiomne Provinciale di Controllo. Si venne così a creare un rapporto di simpatia e un clima di fiducia tra la massa degli abusivi e il Commissario Straordinario del Comune, anche se un grave episodio ruppe, per un momento, l’equilibrio raggiunto. In un giorno della primavera dell’85, ebbi sentore che le pressioni politiche di certi maneggioni palermitani, per ottenere lo sgombero degli alloggi occupati, erano ripresi con maggiore vigore. Mi recai al Comune, sollecitando un incontro con S.E. Vitocolonna, che non volle ricevermi a nessun costo, nonostante si fossero instaurati ormai dei rapporti umani cordiali. Questo comportamento allarmò la massa che temette uno sgombero generale dei quartieri. Il gruppo dirigente del SIPODISE, seguito da migliaia di dimostranti, si mobilitò immediatamente e si recò sotto i balconi di Palazzo delle Aquile, chiedendo a viva voce un incontro con il Commissario Straordinario. Ma S.E. Vitocolonna, persona ferma e tetragona nelle decisioni, non ne volle sapere. La folla cominciò ad agitarsi e si diffuse una tensione sempre più montante controllata a strento dalla polizia che, nel frattempo, era accorsa in forze. Vitocolonna aveva un impegno urgente fuori dal Palazzo e cercò di uscire da una porta secondaria di Piazza Bellini, ma la gente se ne accorse e vi si spostò tumultuosamente. La polizia, forse sorpresa, con i mitra e le pistole puntate, incominciò a spatrare, fortunatamente in aria, ma perdendo il controllo della situazione e sfiorando per poco la tragedia, perché le pallottole sibilavano quasi ad altezza d’uomo. La massa non solo non si spaventò, ma si inferocì e lo scontro tra manifestanti e polizia divenne inevitabile. La polizia continuava a puntare e sparare in aria. Era il caos, non si capiva più nulla, rabbia e furore animavano la gente, ma la forza, lo spirito unitario, la capacità di direzione del Sindacato si dimostrarono, proprio in quei momenti terribili: il gruppo dirigente riuscì, anche con le maniere forti, affrontando energicamente i più turbolenti, a sedare la furia; io personalmente raggiunsi la balaustra dell’adiacente Chiesa di Santa Caterina e di lì improvvisai un comizio. Ricordai a tutti che non certamente con le violenze, con le intemperanze, ma con il diritto umano e sociale, con il mezzo della ragione avevamo ino allora ottenuto di potere conservare il nostro tetto;e non di eccitazione avevamo bisogno, ma di controllo dei nervi e di lucida strategia per portare felicemente a compimento la nostra lotta. Le mie parole ottennero l’effetto desiderato: la tranquillità ritornò negli animi e la manifestazione si sciolse nelle prime ore del pomeriggio. Continuò così il nostro lavoro politico per rendere sempre piu efficace la linea d’azione del SIPODISE.

Nell’estate di quell’anno il SIPODISE organizzò il suo primo convegno al Piccolo Teatro. In tale occasione, si rafforzò la linea strategica, si consolidò la struttura organizzativa e si predispose una traccia di intervento, non soltanto per fronteggiare gli eventuali ritorni di fiamma della violenza istituzionale, ma per affrontare e risolvere i mille problemi quotidiani di organizzazione della vita dei quartieri sempre abbandonati dalle autorità comunali.



V – Nuovi tentativi di violenza istituzionale

Intanto si erano celebrate le elezioni comunali, si era insediato il nuovo Sindaco e si iniziava un nuovo ciclo; non c’era più il Commissario Straordinario Vitocolonna con la sua etica e dignità morale, ma degli interlocutori politici nuovi, il cui atteggiamento ci rendeva quanto meno diffidenti. Il neosindaco eletto, Leoluca Orlando, assegnava l’Assessorato alla Casa del democristiano Domenico Lo Vasco, cancelliere al Tribunale di Palermo, che, svegliando il Comune dal lungo letargo amministrativo, sbloccava i vecchi bandi di concorsi ed altri ne proclamavano per l’assegnazione degli alloggi polari.

Ma il Lo Vasco dimostrò subito la sua scarsa sensibilità politica, quando pensò di poter risolvere i problemi palermitani, ormai incancreniti ed esplosivi, con una mentalità di tipo burocratico e formalistico. Egli non si rendeva conto che non poteva rimettere in funzione la macchina comunale in questo delicato settore, senza tenere presente la realtà sociale formata da ben ventimila persone coinvolte nel fenomeno dell’occupazione degli alloggi popolari. La Fedrazione del M.S.I. – D.N. aveva predisposto ed affidato al proprio gruppo consiliare comunale a Palazzo delle Aquile un documento in cui il problema della casa popolare a Palermo era affrontato con le proposte di un piano generale che, nel farsi carico della complessiva generale esigenza di questo delicato settore, dava una positiva risposta anche alle esigenze degli occupanti abusivi, purchè in possesso dei requisiti per l’assegnazione degli alloggi popolari. Il documento, infatti, dopo avere compiuto una ricognizione degli stanziamenti già previsti, per tale settore a Palermo, con leggi nazionali e regionali, ed avere censito il patrimonio edilizio popolare in via di completamento, quantificava in ulteriori 150 miliardi, da richiedere alla Regione mediante una legge, la spesa necessaria aggiuntiva per varare un piano complessivo di circa 5.600 alloggi popolari e dare così una risposta a tutti i cittadini bisognosi, compresi gli occupanti.

L’iniziativa del Lo Vasco limitava, invece, al ripristino puro e semplice della routine burocratica, attraverso la ripresa dei concorsi, senza un preventivo nuovo piano di costruzione, completamento e acquisto di alloggi popolari, minacciava di scatenare una terribile guerra tra poveri, nel momento in cui i vincitori dei concorsi avrebbero giustamente preteso di entrare nelle case già occupate senza che gli occupanti, sia pure abusivi, avessero già una alternativa di alloggio popolare.

E si trattava di una manovra sconsiderata e cieca che peggiorava radicalmente la situazione precedente.

Si riprende così o continua la guerra psicologica irresponsabilmente scatenata dal Comune con le armi delle ordinanze di sgombero, di comunicati stampa intimidatori, di minacce di intervento delle forze dell’ordine, mentre perdurano le vecchie carenze amministrative e nessun intervento si opera nello ZEN per rendere il quartiere più vivibile.



VI – La ripresa della lotta

In questo clima è ancora la forza, la compatezza del SIPODISE, che si impone nel panorama politico palermitano per portare avanti la lotta di sopravvivenza dei cosidetti abusivi dei nuovi quartieri popolari. Tra la primavera e l’estate dell’86, riprendono le manifestazioni di massa e di piazza perché tutti comprendano che non si può impunemente giocare con le esigenze, le speranze, le aspettative di migliaia e migliaia di pelermitani. E’ una lotta che viene condotta ora con l’instancabile opera di sensibilizzazione dell’autorità prefettizia e di polizia, sollecitandone lo spirito di solidarietà sociale nei riguardi della massa dei bisognosi; ora di duro attacco nei riguardi del governo comunale, dove continuano ad esistere gli interessi più o meno inconfessabili e clientelari di partiti e sindacati del regimi che, perciò, minaccia il ricorso alla forza ed ai mezzi copercitivi.

Quelli dell’estate del 1986 sono giorni roventi non soltanto per il clima torrido, ma per la situazione incandescente sotto l’aspetto sociale e per l’esplosione ulteriore della criminalità mafiosa. E’ in questi frangenti che il SIPODISE decide di dare vita ad una grande manifestazione di piazza che ha il suo clou nel grande comizio di Piazza Politeama. Proprio pochi gioprni prima erano stati uccisi da un “commando” mafioso il vice questore Cassarà e l’agente di PS Antiochia. Il tragico evento mi vede quasi testimone occasionale perché, proprio quel giorno, mi trovavo all’Inail, l’ospedale alle spalle del luogo dell’eccidio, per accompagnare mia madre che si era fratturata un piede. L’eco del Kalanhnikov, con la sua prima raffica, lunga e assordante, e la seconda, piccola e breve, mi spinge sul luogo dell’eccidio, verso quella tragica scena di vera e propria guerra:vedo arrivare le le prime “pantere” della Polizia, gli agenti della Digos, il commissario Salerno che piange di rabbia e di commozione, mentre tutti gli altri agenti urlano parole di fuoco contro i giornalisti che, qualche giorno prima, avevano attaccato le forze di polizia per il caso Marino.

Nel mio comizio del Politeama rivissi le emozioni e le riflessioni di quel giorno e mi chiesi pubblicamente come uno Stato impotente di fronte alla criminalità mafiosa, inerte di fronte al coinvolgimento di certe istituzioni locali nell’affarismo e nell’illegalità, potesse poi trovare il coraggio morale di usare la forza nei riguardi di migliaia di cittadini che soltanto il bisogno, al cospetto dell’immobilismo e dell’inerzia delle istituzioni, aveva portato a fare del proprio sacrosanto diritto ad ottenere un alloggio popolare, un abuso formale con l’occupazione delle case. Concluso il comizio, si andò ancora una volta a Palazzo delle Aquile, dove fummo ricevuti, alla presenza anche dell’on. Tricoli, e di alcuni consiglieri del M.S.I. – D.N., come Campisi e Maltese, dal Sindaco Orlando, dall’assessore Lo Vasco e da altri componenti della giunta comunale. Chiedemmo ancora una volta che l’istituzione comunale si facesse portatrice di una proposta a livello regionale e nazionale per la definizione positiva, dal punto di vista sostanziale e formale, della posizione degli occupanti abusivi, che si interessasse fattivamente per creare condizioni di vivibilità in quell’autentico inferno quali erano ormai i quartieri dello ZEN, Borgo Nuovo, Bonagia etc. pullulanti di migliaia di abitanti, ma privi dei più elementari servizi per la sopravvivenza degli stessi: dagli allacciamenti elettrici e idrici agli scarichi privati, alla rete fognante, all’illuminazione pubblica, per non parlare di scuole, palestre, ambulatori e così via. Ancora una volta, però poco o niente di risposte concrete, di impegni, di prospettive: ma la nostra massiccia presenza serviva anche a ricordare che la così detta “normalizzazione”, per quanto riguardava il delicato settore degli alloggi, non si sarebbe potuta compiere con le armi, il sangue, il sacrificio di migliaia di indingenti e senza tetto.

L’esperienza mi aveva insegnato parecchie cose, soprattutto che la nostra possibilità di vittoria permaneva nella capacità di mantenere integro il potere di mobilitazione, di potere dire alla gente ciò che accadeva nella nostra città, specialmente nelle stanze dei bottoni.

Le nostre proteste e le nostre proposte incalzavano il regime sui temi degli alloggi da costruire e rifinire allo ZEN, delle case – parcheggio per il risanamento del centro storico, della progettazione di nuove case popolari che non sposi la tipologia dei casermoni aninimi. Di fronte alla compatezza, all’unità del nostro sindacato, gli altri sindacati, i partiti e le istituzioni del regime tentano allorra una manovra interna, di divisione della nostra forza, con allettamenti a singoli e a gruppi di “abusivi”, con proposte di sostegno e di soluzione del problema dell’abusivismo a condizione, ovviamente, che si dissocino dal SIPODISE. Un primo tentativo è compiuto dai deputati regionali del P.C.I. con alcuni sindacalisti della triplice sindacale, che, sollecitati a dare la oro solidarietà al’inizio del 1985, avevano allora risposto, e per circa tre anni di seguito, con le ostilità, le minacce, le pressioni sulle istituzioni statali per lo sgombero violento degli alloggi occupati. Ora, considerata la fermezza della lotta condotta dalle masse disederate grazie al SIPODISE, essi si presentano con il volto amico, per tentare di sostituirsi a chi aveva portato avanti con sacrifici la parte più dura della battaglia di sopravvivenza. Si risponde con il rifiuto, con la barricata morale ed umana, che gli occupanti dello ZEN oppongono fermamente nei loro riguardi. Nuovi tentativi vengono compiuti da altri sindacati, da associazioni varie, dal parrocco dello ZEN 1 che, pure, anch’ egli sollecitato tre anni prima, a dare solidarietà ai diseredati, aveva riposto, come già abbiamo scritto, che la “Chiesa non si occupa di certe cose”.

Il SIPODISE rifiuta ogni compromesso, si mantiene compatto e unito, mentre continua ininterrotta la sua richiesta di strade, perché nei quarieri popolari non si viva nel fango, di servizi igienici, perché i bambini non muoiano di epatite virale, di ambulatori perché la gente priva di ogni assistenza sanitaria, possa curarsi. Tali lotte creano nel sindacato e nella massa organizzata una cementata solidarietà umana e scuotono finalmente la città addormentata e lo stesso governo nazionale.

Quella prima, ormai lontana manifestazione dell’inverno dell’85, che aveva visto concentrarsi in Piazza Massimo circa quindicimila persone, che sventolavano bandiere tricolori, a significare la fiducia nella solidarietà nazionale, che innalzavano striscioni di protesta e di speranza, e rullavano su pentole e tamburi,quel primo segnale di lotta ch aveva visto il mio battesimo del fuoco, adesso si presentava nel ricordo non più soltanto come un tentativo disperato, ma come il primo atto di una lotta che, dopo quattro anni di continue incessanti battaglie, stava per sbloccare verso il riconoscimento del diritto alla casa al lavoro della gente di cui aveva sposato la causa.

A darmi se non la certezza quanto meno la speranza in un futuro migliore erano i primi timidi riconoscimenti che incominciavano a pervenire da parte delle amministrazioni e delle istituzioni. Finalmente, nell’agosto del 1988, una delle tante battaglie concedeva agli abitanti dello ZEN 2 la possibilità di ottenere un contratto per la fornitura di energia elettrica. Migliaia e migliaia di deseredati in questo modo cominciavano ad uscire dalla morte civile e ad ottenere un riconoscimento ufficiale della loro posizione, grazie ad un ente parastatale.



VII – ZEN 2

Lo ZEN è, come abbiamo visto, il quartiere – scandalo, è il quartiere dove i mali particolari, le clientele, le inerzie e le inadempienze del regime hanno, però, trovato un popolo che non si è rassegnato, ma ha lottato. E ‘ il quartiere delle mille contraddizioni sociali, morali, civili ed anche politiche.

Vi si è trasferito un popolo disperato e povero; il bracciantato precario degli edili, esercenti attività improvvisate e provvisorie, disoccupati, ma anche alcune famiglie della “mala” provenienti dallo ZEN 1, che vi stabilivano il loro stato maggiore. Nel ghetto voluto dal regime, i malavitosi potevano, indisturbati, costruire meglio i lori disegni criminosi e prosperare sui reali bisogni di gente abbandonata da tutti. Nell’omertà e nel bisogno un intero padiglione diventa un vero supermercato della morte. Lo spaccio della droga si propaga facilmente in tutto il quartiere: tra i disoccupati, tra i giovani, tra i precari, è l’espediente per sbarcare facilmente il lunario; si acquista una busta a lire 30.000 per poi rivenderla a £.60.000 al drogato che trova, nel degrado del quartiere, l’ambiente squallido per bucarsi. Ma è il SIPODISE, con la sua unità, che lotta, salva e denuncia all’Autorità. Il regime regala l’evasione, il Sindacato offre la speranza. La gente emarginata di una metropoli che, a quarant’anni alla fine della guerra, non ha sanato le ferite del suo centro storico, che conta la più alta percentuale di disoccupazione giovanile in Italia, dove certa classe politica si preoccupa di poltrone e formule e discrimina le opposizioni, trova rifugio nel quartiere emblema: ecco, dunque, le ragazzi madri, i violentatori, i venditori di droga, i drogati, la delinquenza. Ma il quartiere non è solo questo, anzi non è prevalentemente questo: è, in maggioranza, formato da gente che crede nel diritto alla casa e al lavoro, che spera nonostante tutto, si dà forza, infonde coraggio e si pone di esempio per gli emarginati che affluiscono nello ZEN 2. Non a caso negli scioperi, nei giorni di lotta, predomina il trimonio “casa, lavoro,libertà”, che, più che uno slogan, è un grido di speranza, il desiderio di riscatto di un popolo. La casa è un diritto del cittadino; da quando è nato il mondo civile, l’uomo lotta per il rifugio, per il tetto,per la casa. Casa vuol dire famiglia, vuol dire serenità, vuol dire civiltà. Lavoro: è lo strumento civile attraverso cui l’uomo si realizza. Ma nella Palermo di oggi questo diritto elementare è una aspirazione, non una certezza. Il lavoro manca e in questa città ci sono migliaia di disoccupati o, per meglio dire, disperati di tutti i ceti sociali, dal laureato al manovale. Libertà: mancando il lavoro, mancando la casa, manca la libertà di vivere. E molti scelgono la morte, cioè la mafia e la droga. Ma tanti e tanti altri, la stragrande maggioranza, hanno scelto la lotta e perciò si sono organizzati nel SIPODISE nella convinzione che, alla fine, un messaggio di vita nuova verrà anche per loro.

E ‘ con questa speranza che si lotta anche nel consiglio di quartiere, contro l’emerginazione, contro la ghettizzazione, verso cui stranamente spingono le istituzioni colpevolmente sorde e indifferenti e la mafia degli spacciatori che trovano in tale situzione il terreno di coltura per l’arruolamento della manovalanza e per lo spaccio della droga. Emarginazione che viene alimentata anche da certo assistenzialismo che elargisce le briciole di un potere ottuso e sordo, di un regime marcio che, per il resto, fa promesse e prende impegni che non rispetta mai.

Emarginazione che viene alimentata anche da certi epigoni pasoliani, come il regista Baldi, nella cui cinematografia, cosidetta realista, si trova più il compiacimento quasi sadico di certe situazioni, piuttosto che un vero sentimento di pietà verso gli abitanti dello ZEN, o l'indignazione verso le istituzioni responsabili. Emergenza ancora alimentata dalla distorta visione di un intero quartiere prospettata da una campagna giornalistica italiana e estera che arriva a ipotizzare, per la donna dello ZEN 2, “ il sesso” come unico svago. E ciò senza tenere conto che la donna dello Zen 2 combatte la sua quotidiana battaglia di sopravvivenza, sacrificandosi per la famiglia, con un duro lavoro quotidiano, dentro e fuori casa.

A questo punto, quello dello ZEN 2, non può essere considerato soltanto il problema diun quartiere, ma di un’intera città che non può fingere di non sapere, di ignorare e si rifugia nel proprio privato. L’ intera città deve svegliarsi, per sostenere la battaglia dello ZEN, perché non più lo ZEN 2 col suo degrado, ma la lotta dello ZEN 2 sia l’immagine di una Palermo che può intraprendere il cammino della speranza.



VII – Un raggio di sole

La visita del Cardinale PAPPALARDO segnò una tappa importante nella vita del poplo “occupante” palermitano. Pressati richieste erano state fatte perché gli occupanti dello ZEN potessero essere ricevuti dal Cardinale che, finalmente, ci concesse udienza nel suo studio privato. La delegazione del Sindacato era composta da donne dello ZEN, di Borgo Nuovo e dal sottoscritto. Nel suo studio c’erano Suor Damiana che si prodigava allo ZEN, padre Gallizzi, parrocco dello ZEN 1, ed altre suore.

IL dialogo fu molto semplice e, nello stesso tempo, carico di infinite emozioni. S.E. Pappalardo si informava con le donne della loro famiglie, del lavoro loro e dei mariti. Quando domandai al Cardinale se fosse venuto nei nostri quartieri egli, a sua volta, mi chiese perché volessi la sua visita: propsettai l’aspettativa, il bisogno materiale e spirituale di un popolo solo e abbandonato che avrebbe potuto essere rianimato nella speranza dalla presenza della massima autorità religiosa della Città. La visita del Cardinale era importante per gli occupanti, perché il Cardinale Pappaòardo con la sua presenza avrebbe sensibilizzato tutta l’opinione publica e avrebbe indirettamente rivolto un messaggio ai politici e agli amministratori perché gurdassero allo ZEN 2 con maggiore spirito di solidarietà sociale e cristiana. Il Cardinale interpretò nel giusto modo la nostra richiesta e si impegnò a soddisfarla al più presto. Da quel giorno, con i rappressentanti della Chiesa i rapporti si fecero frequenti nel quartiere. Suor Damiana frequentò la mia casa, si interessò delle condizioni di mia moglie che, proprio in quel periodo, diede alla luce la mia terzogenita Valeria. Suor Damiana propose di fare battezzare la bambina dal Cardinale. I problemi sindacali erano tanti, ma ci mobilitammo tutti per accogliere il Cardinale nel migliore dei modi. In pochi giorni, in un locale abbandonato, dove doveva sorgere una scuola, fu allestita una Chiesa. Una Chiesa di popolo, con una croce costruita dagli occupanti con due pali di legno e il Cristo rappresentato da due mollette. Persino si collocò un piccolo organo. Il Cardinale venne allo ZEN, visitò tutti i padiglioni; nel mezzo della visita si scatenò un temporale e ci rifugiammo in Chiesa dove l’organo suonava e il coro, istitutito da Suor Damiana, cantava: “ Io ho un amico che mi ama”, Fu celebrato il battesimo di Valeria, come simbolo e augurio di rinascita sociale e civile di tutto un popolo nel nome di Cristo. Anche a Borgo Nuovo il Cardinale si recò per celebrarvi una messa e quel giorno si verificò un “miracolo” : nascosto tra la folla, assisteva al rito religioso l’assessore alla casa Lo Vasco che, per tanto tempo, ci era stato ostile e insensibile ai nostri problemi. Al termine della messa, ringrazai il Cardinale della visita e invitai l’assessore, che se ne stava in disparte, a partecipare e intervenire. L’assessore esitava, ma il Cardinale, quasi lo afferrò per mano e lo spinse sul podio improvvisato. Lrcivescovo concluse felicemente il rito, ringranziando l’assessore, sensibilizzandolo dai problemi sociali degli abusivi, defidinendo la sua presenza e l’ntera situazione come un avvenimento miracooso, esortando il popolo ad avere fiducia e sperare nel Signore. Una visita prettamente pastorale nei quartieri si era trasformata, per l’alto carisma di S.E. Pappalardo, in un grande avvenimento sociale, civile, morale e politico, determinato e determinante per il Sindacato e il popolo tutto.



IX – La lotta continua

La visita del Cardinale Pappalardo allo ZEN 2 e a Borgo Nuovo, tra il popolo disederato degli abusivi, è stato un raggio di sole, il raggio della Provvidenza che ha animato e anima la nostra speranza. Quella speranza che è diventata ancora più luminosa, dal momento che il decreto- legge Sicilia del 28 novembre 1987 ha riconosciuto finalmente, a livelo statale, i gravi problemi dello ZEN, per la soluzione dei quali è iniziata ed è stata portata avanti la battaglia del SIPODISE. Tale decreto – legge porta a Palermo una pioggia di miliardi che servirà, anche, per l’urbanizzazione primaria e secondaria, per il risanamento sociale nelle istituzioni le istanze portate avanti dai ventimila palermitani che hanno sfilato per tanti anni per le vie della città con il SIPODISE.

Ma questo decreto legge, con i suoi miliardi, potrà acquistare tutta la sua portata se esso sarà seguito da un provvedimento legislativo regionale che sani anche la condizione civile ed umana degli occupanti dello ZEN e dei quartieri popolari di tutta la città, come viene sollecitato da un disegno di legge presentato dal gruppo parlamentare regionale del M.S.I. – D.N.. La realtà umana e sociale, viiva e trepidante, raccolta attorno al SIPODISE e ai suoi dirigenti, vuole, inoltre, diventare protagonista del risanamento dei quartieri polari. La funzione di un mondo, che ha trovato la sua espressione e la sua vitalità nel Sindacato, vuole essere primaria non solo per vigilare sulle realizzazioni che sulla carta si delineano, ma perché il decreto- Sicilia diventi lo strumento di riscatto di migliaia di disederati verso i traguardi della casa, del lavoro e della libertà.

I disoccupati dello ZEN avranno da lavorare nel loro quartiere, se è vero che ci sono tanti miliardi in arrivo per il risanamento urbanistico, quindi hanno molto da dare allo sviluppo di un quartiere che è in una delle zone più belle della città, della città di palermo incantevole e magnifica.

La lotta del SIPODISE non è dunque cessata: essa continua per fare sì che la massa di coloro i quali si sono attorno ad esso riuniti possano trasformarsi, finalmente, da disederati in cittadini di uno stato e di una città degni di questo nome.

Miranda Roberto

Palermo, febbraio 1989

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