LE ORIGINI DEL CAOS IRACHENO

Il primo maggio 2003, sostando sulla portaerei USS Abraham Lincoln, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush pronunciò, a proposito delle sorti dell'Iraq, una frase divenuta storica: “Mission accomplished”. La guerra era iniziata con l’invasione del 19 marzo 2003, il nemico era stato sconfitto, Saddam Hussein era scappato, gli americani, e chi li appoggiava, avevano vinto. 
Ergo, “la missione era compiuta” e, nell’enfasi dell’euforia del momento, iniziava la cosiddetta “esportazione della democrazia”.
Da quel giorno sono passati più di 11 anni e questo è il prezzo pagato dagli iracheni per questa vittoria della democrazia: oltre 133.000 morti tra civili, insorti, militari e chi, più o meno casualmente, è stato vittima di questa guerra che da militare è diventata civile. Ed è un dato per difetto. Dal gennaio 2014 sono morte nel Paese una media di 1000 persone al mese, con un picco a giugno quando le vittime sono state oltre 3000. Nel giugno 2014 sono in pratica morte circa lo stesso numero di persone del marzo 2003 in seguito all’invasione americana. Nel frattempo gli americani hanno completato il loro ritiro dall’Iraq, iniziato nel giugno del
2009 e terminato nel dicembre del 2011. Anche loro hanno lasciato sul campo oltre 4000 connazionali. Questo è, in sintesi, il quadro d’insieme della storia irachena dal 6 febbraio del 2003, giorno in cui, con un celebre discorso dell’allora Segretario di Stato americano Colin Powell davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, fu certificato da prove “inconfutabili” che l’Iraq aveva in essere un programma di armi di distruzione di massa e che questo era quindi un motivo più che valido per attaccare il paese. Nel corso del discorso di Powell furono mostrate immagini, foto, intercettazioni – ovviamente provenienti dalla CIA – perché quello che affermava era basato su fatti incontrovertibili. Saddam Hussein era diventato il male assoluto, addirittura accusato di collusione con il terrorismo islamico (quando, invece, era notorio, per chi conosceva le problematiche di quella regione, il contrario) e doveva quindi essere eliminato. E così è stato. Tuttavia, le armi di distruzione di massa non sono mai state trovate (ma questo non aveva
più importanza a guerra fatta), ma si era comunque tolto dal mondo un dittatore sanguinario (e questo era l’unico dato certo).La “democrazia” che ne è venuta fuori ha in sostanza sovvertito l'ordine costituito sino ad allora in Iraq: una leadership sciita ha
estromesso quella pre-esistente di estrazione sunnita. Quindi, nei fatti, si è invertito l’ordine dei fattori – come si usa dire in matematica – ma il prodotto non sarebbe dovuto cambiare. C’è stato, per così dire, solo uno scambio di ruolo tra persecutori e perseguitati, tra chi comanda e chi dovrebbe ubbidire. Ma la matematica non è la realtà in carne ed ossa.Alla luce di quello che avviene oggi in Iraq è necessario ricercare le cause per dare delle risposte su di un paese che, con l’arrivo di bande di terroristi che sotto la bandiera dell’Islam avanzano verso Baghdad, rischia la disintegrazione. La strada verso la disintegrazione
Il primo errore lo hanno fatto gli americani che, quando conducono una guerra, distruggono tutte le infrastrutture di un paese (in modo da creare dal nulla il ricco mercato degli appalti per la ricostruzione). L’Iraq “liberato” nel 2003 era un paese devastato e
distrutto; la popolazione si è così trovata a dover subire, nella vita di tutti i giorni, le conseguenze del conflitto: mancava (manca) spesso la luce, la benzina la trovavi al mercato nero (circostanza che ricorre anche oggi), distrutti gli acquedotti e problemi nella
distribuzione dell’acqua. Fin dai primi momenti successivi all'invasione, la gente comune ha incominciato a domandarsi se forse stava meglio sotto Saddam. Nel contempo, gli americani si chiedevano perché il popolo non li acclamasse al loro passaggio per le strade visto che avevano portato loro libertà e democrazia. Poi, nel maggio 2003 e fino a giugno dell’anno successivo, gli americani instaurano un loro proconsole a guidare la transizione dell'Iraq. Un diplomatico, Paul Bremer, che nel suo anno di interregno a Baghdad compie il più colossale degli errori: stabilisce che tutti coloro che avevano avuto un ruolo nella dittatura precedente, a qualsiasi titolo o rango, civili o militari che fossero, dovevano essere estromessi da incarichi nell’amministrazione dello stato. Veniva quindi distrutta l’ossatura delle Forze Armate (che era in mano ai sunniti), venivano licenziati tutti quei personaggi (sempre e soprattutto sunniti) che avevano aderito  (molti per convenienza, pochi per convinzione) al partito baathista del dittatore. Una norma che ebbe come effetto immediato quello di mettere sul lastrico circa 3 milioni di persone (computando i familiari) e che distrusse in un colpo solo gli apparati di sicurezza iracheni. Da quel momento in poi gli sciiti hanno preso il potere ed i sunniti sono stati marginalizzati. Nel contempo, la terza entità del paese, i curdi, rappresentanti circa il 17% della
popolazione irachena, si sono lentamente appropriati di una propria autonomia, hanno formalizzato il loro esercito di Peshmerga, beneficiano degli introiti petroliferi dei giacimenti di Kirkuk e stanno creando le premesse per la creazione di un proprio Stato autonomo che fino a ieri era osteggiato da tutti – turchi per primi – ma che oggi, nella dissoluzione del paese, rappresenta un'oasi di pace e prosperità a cui molti guardano con simpatia. I sunniti, emarginati, hanno osteggiato fin dal primo momento i governi sciiti che sono assurti al potere a Baghdad. Con un dettaglio da non trascurare: i sunniti, proprio perché parte integrante della dittatura di Saddam Hussein, erano gli unici che sapevano fare la guerra. E quindi, in modo più o meno convincente, hanno incominciato a combattere contro la leadership sciita con il peso della loro specifica esperienza. Sul fronte degli sciiti, invece, dopo il governo di Ayad Allawi – durante il quale erano stati messi in atto dei tentativi per trovare un accordo con i sunniti (vi erano stati, nel 2004/2005 degli incontri tra rappresentanti sunniti e diplomatici americani e inglesi, alcuni avvenuti anche nel compound diplomatico italiano della Green Zone) – i tentativi di riconciliazione si sono diradati con l’arrivo al governo di Ibrahim Jaafari (2005/2006), fino a scomparirecompletamente con l’avvento di Nouri al Maliki. Maliki che, purtroppo ed in un'ottica di una
auspicabile riconciliazione nazionale, guida tuttora le sorti dell'Iraq. Il ruolo di David Petraeus Se, sul piano politico, la contrapposizione tra sciiti e sunniti era legata all’alternarsi dei diversi primi ministri sciiti ed al loro relativo trend relazionale negativo, sul piano militare vi è stato invece un miglioramento nel giugno del 2004. La svolta, in positivo, è corrisposta
alla nomina del generale americano David Petraeus a responsabile del “Multinational Security Transition Command Iraq”, ovvero della struttura dedicata alla creazione ed al rafforzamento delle strutture di sicurezza del paese. E questo obiettivo era stato raggiunto coinvolgendo nel processo anche milizie sunnite. Quando poi, nel gennaio del 2007, Petraeus è stato nominato a capo delle Forze Multinazionali in Iraq, il suo approccio ha lentamente incominciato a produrre risultati tangibili: si è passati dai 26.000 morti ammazzati del 2007, ai 10.000 del 2008, ai circa 4/5000 negli anni 2009-2012. Tutto questo è avvenuto soprattutto quando Petraeus è stato promosso, nel 2008, a Comandante di USCENTCOM, Comando sotto la cui responsabilità ricadevano le operazioni in Iraq e Afghanistan. I successi militari del generale in Iraq (dove la decrescita dei morti era correlata ufficialmente alla crescente capacità delle forze di sicurezza locali), non sono stati poi mutuati in Afghanistan, dove, nel 2010, Petraus è stato
nominato capo delle forze militari americane. Se, sul piano politico, i contrasti tra sciiti e sunniti sono cresciuti con l’arrivo di Al Maliki al governo e, sul piano militare, il ruolo diretto/indiretto di Petraeus ha ottenuto e favorito una certa forma di convivenza, la progressiva partenza delle truppe americane dall’Iraq ha prodotto degli effetti negativi su questo equilibrio precario tra le due comunità. La conseguenza è stata che, nel 2013, i morti in Iraq sono tornati sull’ordine dei 10.000. L'ISIS e gli ex-Baath
Poi sono arrivati i problemi dall’esterno: nel marzo del 2011, sull’onda della cosiddetta Primavera Araba, è incominciata la rivolta in Siria. E come in tutte le rivoluzioni, sono arrivati oppositori armati che si sono addensati ai confini siriani. Anche l’Iraq è diventato la
base di partenza delle incursioni armate contro il regime di Damasco. Vi si sono concentrati oppositori armati di ispirazione laica e oppositori (la maggioranza ed anche quelli militarmente più preparati) di ispirazione islamica.  Tra quest’ultimi vi sono Jabhat al Nusra (appoggiato da Al Qaeda) e l’ISIS (Stato islamico in Iraq e Siria) che si contendono il primato islamico nella lotta contro Bashar al Assad. L’ISIS controlla parte della Siria e del nord dell’Iraq,il suo capo, noto con lo pseudonimo di Abu Bakkr al Baghdadi (in realtà è originario di Samarra e si chiama Awad Ibrahim Amoush), non nasconde la sua idea di creare un califfato tra Siria e Iraq. Il suo disegno è aiutato da due elementi favorevoli: la debolezza del governo centrale iracheno e il sostegno che il rancore accumulato dai sunniti discriminati dalla dirigenza sciita gli assicura. Accanto all’ISIS ci sono infatti anche i militanti ex-baathisti di Izzat Ibrahim al Douri, uno degli ultimi esponenti del regime di Saddam ancora in libertà. TraISIS e Douri si è creata una sinergia di intenti tra falangi islamiche e rivalse sunnite di ispirazione laica. Una guerra che ha poi piano piano acquisito caratteristiche religiose nella contrapposizione tra sunniti e sciiti. E questo ha portato, sul fronte opposto, ad una sinergia di intenti tra l’Iran, che vuole proteggere il governo amico di Al Maliki, e gli USA, che temono l’instaurazione di un'entità estremista nella regione mediorientale. E, come capita spesso in un’area instabile come il Medioriente, i ruoli e le alleanze si invertono, si invertono anche gli interessi, gli amici diventano nemici e viceversa. Quale finale? La storia prossima futura delle vicende irachene non ha ancora un finale scontato. Entrano in gioco variabili da verificare: il coinvolgimento militare più o meno incisivo degli USA e
dell’Iran contro l’ISIS, la tenuta del governo iracheno nella persona di Al Maliki o di chi per lui qualora fosse estromesso per facilitare una riconciliazione nazionale, il peso finanziario delle milizie islamiche dopo la presa dei giacimenti petroliferi di Mosul, gli espropri delle banche irachene, le estorsioni e le esazioni (elementi su cui si misura e correla il seguito e sostegno da parte della popolazione locale), l’incognita delle vicende militari sul fronte siriano, i risultati della faida in corso fra Jabhat al Nusra e le formazioni dell’Esercito Libero Siriano (con morti ammazzati sul terreno),l’atteggiamento dei curdi che potrebbero optare
per un ruolo militare attivo, l’atteggiamento anche di paesi limitrofi come la Turchia e la Giordania che potrebbero ritenere importante intervenire per la loro sicurezza nazionale, un eventuale successo o fallimento di una mediazione per coinvolgere la comunità sunnita nelle vicende dell'Iraq. Abu Bakkr al Baghdadi intende adesso giocare un ruolo politico e militare superiore alla
sua reale influenza sul terreno. Si è autoproclamato Califfo, ha millantato una discendenza diretta dal profeta, e, nel suo sermone a Mosul nel luglio 2014, si è arrogato il diritto di guidare i musulmani in una nuova guerra santa nei confronti degli empi e degli infedeli. La sua guerra non ha più limiti territoriali, non riconosce confini se non quelli che racchiudono la “Umma”, la comunità musulmana. I suoi nemici non sono più i siriani o gli iracheni, ma gli Alawiti, gli Sciiti e, in senso lato, i cristiani e le frange moderate del sunnismo come i Sufi. Tutto questo significa che il problema dell’avanzata delle milizie salafite verso Baghdad
non è più un problema nazionale interno all’Iraq o della Siria. E quindi, se e quando ci sarà una risposta militare a questo pericoloso diffondersi del terrorismo islamico, sarà una risposta che vedrà il coinvolgimento di parecchi attori internazionali.
 
 
 

Inserito da Domenico Marigliano Blogger

 
Guest blogging Italia

Newsletter

Iscriviti alla nostra Newsletter:

Sondaggio

ti piace il mio sito metti un voto

si 1.152 95%
no 62 5%

Voti totali: 1214