LA PARABOLA DISCENDENTE DEI FRATELLI MUSULMANI TERRORISTI FALSI E BUGIARDI.

Sembrava che le primavere arabe avessero risvegliato da un lungo letargo politico il MedioOriente e il Nord Africa, luoghi dove fino ad allora avevano prevalso dittature, regimimilitari, corruzione e violazione dei diritti umani. Tante aspettative si erano riversate in quelsusseguirsi di ribellioni e proteste, la gente aveva cominciato a credere nel proprio diritto ad un futuro migliore.
Cos'era il comune denominatore di questo spirito di rivalsa? In senso lato era l’Islam politico, unico veicolo di trasmissione del consenso alternativo ai regimi a partito unico. Le autocrazie impedivano alle masse di esprimere politicamente o socialmente le loro istanze, niente poteva però impedire agli imam e alle moschee di interpretare e pilotare il comune senso sociale. Questo spiega perché in molti dei Paesi dove sono nate ribellioni e proteste queste siano state guidate da movimenti religiosi.
 
L'ascesa
 
 
E' in questo quadro che si inseriscono, in un ruolo centrale, i Fratelli Musulmani che, a differenza di altre formazioni politico-religiose, hanno per primi e da sempre perseguito una religione politicizzata o, se si vuole, una politica guidata dalla religione. I Fratelli Musulmani sono comparsi nelle vicende libiche, prendono il potere in Egitto, pilotano le prime ribellioni armate in Siria, sono prevalenti a Gaza sotto l’etichetta di Hamas, si identificano con l’AKP di Recep Erdogan in Turchia, hanno grande influenza nel partito Al Islah in Yemen. Nelle prime fasi delle primavere arabe, i Fratelli Musulmani sono al centro del panorama politico e sociale della regione. Riescono ad essere anche convincenti verso quei Paesi occidentali che diffidano del loro estremismo religioso. Ottengono l’appoggio degli Stati Uniti in Egitto, creano sinergie politiche con la Turchia, si accreditano come portatori di quelle istanze da sempre neglette in quella parte di mondo: libertà, equità sociale, diritti civili, lotta alla corruzione. Si dà per scontato che, se un giorno il panorama politico in Medio Oriente o Nord Africa cambierà, loro ne saranno i principali attori. Una circostanza che allarga il loro potenziale peso ed interesse da parte degli interlocutori internazionali; compaiono contatti ed espressioni di stima mai prima indirizzate nei loro riguardi. Si esorcizzano le loro idee radicali con il fatto che interpretano il bisogno di giustizia sociale che percorre quei Paesi. Vengono enfatizzati tutti gli aspetti che qualificano il loro impegno sociale: scuole, ospedali, assistenza alle fasce deboli della società. Ovvero, quegli stessi aspetti che hanno contribuito a procurare alla Confraternita tante simpatie.
 
La caduta
 
Ma qui inizia anche il percorso inverso della parabola politico-sociale dei Fratelli Musulmani. Perché, alla fine, professare idee religiose e farne una politica sociale al di fuori di ogni responsabilità di potere è una cosa, tramutarla in un governo fatto di atti concreti è un’altra. I Fratelli Musulmani arrivano democraticamente al potere in Egitto ed iniziano ad essere quello che sono: un movimento portatore di una visione estremista della loro religione che mira a riformare la società che guida. Lo fanno con il radicalismo delle loro idee e dei loro comportamenti. Non si pongono mai il problema se quello che fanno sia giusto o democratico. Non cercano minimamente di interpretare le idee o le istanze degli altri. Nella loro storia oramai quasi centenaria non lo hanno mai fatto. E’ la forza delle loro convinzioni che non lascia margine ai dubbi. La loro democrazia è l’imposizione dei propri precetti religiosi. Chi non si piega ai dettami delle loro regole non rappresenta l’oppositore, ma l’avversario. Così facendo creano un'immediata contrapposizione con le frange laiche della società, alimentando ulteriori tensioni sociali. A differenza di Ennadha in Tunisia, di fronte al montare del risentimento popolare per le loro imposizioni sociali, i Fratelli Musulmani egiziani non hanno saputo o voluto ridimensionare le proprie richieste religiose o cercare di interpretare i sentimenti di una società laica. Il calo di popolarità che ne è conseguito ha fornito al generale Abdul Fatah al Sisi l’opportunità di ritornare al passato. Questo a differenza proprio di Ennahda che, invece, pur ridimensionata nella sua invadenza politica, mantiene comunque un ruolo importante nelle vicende tunisine. Il ritorno dei militari al potere in Egitto mette fine all'appuntamento con la storia egiziana. La storia finisce qui.
 
Incroci pericolosi
 
In Siria i Fratelli Musulmani rappresentavano l’opposizione storica al regime baathista di Bashar al Assad. Potevano coagulare intorno a questo loro primato un ruolo di leadership politica e quindi militare nel tentativo di deporre la dittatura alawita. Tuttavia, non sono riusciti a farlo e dopo un iniziale ruolo di prestigio nelle fila dell’opposizione, si sono ritrovati marginalizzati. Questa volta la colpa non è stata solo della contrapposizione tra laici e religiosi, ma del sopravvento preso dalle frange islamiche estremiste nella conduzione della lotta armata. La Confraternita si è così trovata superata da soggetti più radicali di loro. Perché se gestisci un potere con idee radicali crei tensioni sociali che delegittimano il tuo ruolo di comando (ed è il caso egiziano), ma se vuoi invece tramutare le tue idee religiose in una forza militare chi è più estremista di te ti marginalizza (ed è il caso siriano con il Jabath al Nusra e l’ISIS). L'esperienza in Egitto e Siria hanno messo fine al ruolo centrale dei Fratelli Musulmani: non hanno saputo tramutare il ruolo di opposizione in un ruolo di comando, non hanno saputo dare al proprio radicalismo religioso un sufficiente impeto armato. In Libia, la Fratellanza è stata per anni erseguitata da Gheddafi che aveva poi raggiunto con loro un accordo: fuori gli affiliati dalle carceri in cambio dell'abbandono della lotta armata. Un patto raggiunto con la mediazione di Hamas che era servito al dittatore libico per isolare ulteriormente la ribellione del Gruppo Islamico Combattente Libico. Presenti nelle fila ribelli, caduto il raìs i Fratelli Musulmani hanno cercato di recitare un ruolo di primo piano nelle successive vicende del Paese. Il caos istituzionale che tuttora avvolge le vicende libiche non gli ha permesso di poter esercitare il proprio peso politico. Ancora una volta le frange radicali che hanno mantenuto un assetto armato(e non politico) hanno preso il sopravvento, come nel caso di Ansar al Sharia in Cirenaica. La caduta di Mohamed Morsi al Cairo ha dato un'ulteriore spallata alle velleità politiche del movimento in Libia, riducendo nel contempo i margini operativi di chi intendesse magari proseguire la lotta via un'opzione militare. Sulle vicende della Confraternita in Egitto e Medioriente hanno influito anche le politiche dei diversi attori regionali. L’AKP di Erdogan si è schierato al fianco della Fratellanza, altrettanto ha fatto il Qatar. Si è invece schierata a favore dei militari l’Arabia Saudita. Del resto l’esperienza turca di un Islam asservito alla politica è speculare a quella egiziana, mentre il Qatar gioca la sua partita per il prestigio regionale ed internazionale in contrapposizione ai sauditi. Ryad non ha mai condiviso la visione di un Islam politico, il quale è contrario alla filosofia wahabita.
 
Appuntamento con la Storia
 
Oggi i Fratelli Musulmani sono perseguitati in Egitto o, meglio, sono tornati ad essere perseguitati come erano in passato. Etichettati come organizzazione terroristica, regredito al livello di Hamas a Gaza. Nel contempo, in Turchia gli scandali che stanno colpendo il premier Erdogan ne indeboliscono il ruolo centrale, in Libia e Siria la Fratellanza deve cedere il passo alle frange più estreme ed è marginalizzata. La parabola discendente è completata. La caduta di Mohamed Morsi in Egitto ha avuto conseguenze anche su Hamas che ne è risultata indebolita. Ed una Hamas isolata negli angusti confini della Striscia di Gaza sa che non può sopravvivere senza i rifornimenti dal Sinai. La fazione palestinese ha prima cercato di trovare una soluzione politica al suo isolamento, sottoscrivendo un accordo di riconciliazione con l’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Mahmoud Abbas. Una mediazione che è frutto di tante debolezze: quella di Hamas a causa dell’ostilità egiziana, quella dell’ANP per un negoziato con Israele che non porta da nessuna parte. Il ritorno di Hamas su posizioni radicali e lo sconto militare con gli israeliani sono una tattica suicida di cui non è possibile valutare ancora le conseguenze. Ma, come detto, sulla pelle dei Fratelli Musulmani si stanno oggi giocando anche le velleità egemoniche di vari Paesi arabi. Nella scontro in atto tra Arabia Saudita e Qatar – Ryad avversa la Confraternita, l'ha recentemente dichiarata “un'organizzazione terroristica” come fatto dall’Egitto, mentre Doha sostiene la Fratellanza – i Fratelli Musulmani sono diventati, loro malgrado, strumento di un gioco più grande di loro. Il dissidio tra Qatar e Arabia Saudita (appoggiata dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein) pone l'organizzazione sul fronte avverso rispetto all’Arabia Saudita, un circostanza contro i propri interessi e che produce la perdita del sostegno di buona parte del mondo arabo. Anche in Yemen il Partito Al Islah (“Riforma”) che rappresenta l’ala politica della Confraternita in quel Paese si trova al centro del contenzioso tra Doha e Ryad ed è verosimile che a breve questa circostanza porterà a delle conseguenze negative per l’organizzazione. Allora i Fratelli Musulmani hanno perso un appuntamento con la Storia? Difficile da dirsi perché l'instabilità mediorientale rende precari ruoli e situazioni. Passare dal potere all’opposizione e viceversa è molto facile in questa parte di mondo. Ma se all'opposizione la Confraternita godeva di prestigio e di supporto, quando è passata al potere lo ha fatto in modo improprio e conflittuale perdendo così il credito fin lì accumulato. E questo è un po’ il destino di quelle organizzazioni che nascono in contrapposizione al sistema e quando diventano sistema non hanno sufficiente esperienza o intelligenza politica per farlo.
 
GAZA, LA STORIA SI RIPETE
 
Il dramma della popolazione di Gaza può essere riassunto in pochi dettagli geografici: oltre 1,8 milioni di abitanti, 365 kmq di superficie, una densità di popolazione tra le più alte del mondo (circa 10.000 persone per kmq) ed anche un tasso di crescita demografica tra i più alti del mondo (2,91%). Di questa popolazione, il 70% è iscritta nelle liste dell'ONU come rifugiati. Questo spiega perché un'invasione israeliana produca molte vittime civili che oggi, a differenza del passato, non hanno possibilità di fuga dal momento che l’Egitto ha chiuso il valico di frontiera di Rafah al transito di rifugiati. Il fatto poi che tra le vittime ci siano soprattutto giovani e bambini è frutto di un altro dato demografico: oltre il 43% della popolazione di Gaza ha meno di 14 anni, un altro 22% ha tra i 14 ed i 24 anni. Poi ci sono le efferatezze che una guerra si porta dietro, alle quali vanno aggiunte le peculiarità proprie dei due contendenti: Israele interpreta il suo modo di difendersi senza limitazioni all’uso della forza, Hamas cerca attraverso la disperazione generata da una guerra di riconquistare la centralità ed il consenso politico del mondo palestinese. Al dramma della sopravvivenza fisica si sovrappone, altrettanto rilevante, quello della sopravvivenza economica. Tutta l’economia della Striscia era legata ai traffici provenienti dai tunnel con l’Egitto. Una volta che questi sono stati chiusi dal generale Abdel Fattah al- Sisi, non è stata creata un'alternativa per fare arrivare alla popolazione di Gaza quello di cui necessita. Anche la pesca, una delle pochissime risorse lavorative presenti, era stata già fortemente penalizzata dalle restrizioni israeliane che impediscono alle barche di superare le 4 miglia marine. Anche sul piano economico i dati sono significativi: il 22.5% della popolazione è disoccupata, il 38% vive sotto la soglia di povertà. E chi ha la fortuna di avere un lavoro, come gli oltre 60.000 dipendenti pubblici, non riceve stipendi da mesi. E l’indigenza porta ad altra disperazione.
Una miscela esplosiva
 
Nelle vicende mediorientali e soprattutto nella questione palestinese molte volte i fatti travalicano le intenzioni ed episodi apparentemente causali innescano reazioni a catena in un contesto sociale altamente esplosivo. Nel caso in questione, tutto è degenerato quando il 12 giugno 2014 sono stati ammazzati tre giovani ebrei nell’area di Hebron. Hamas non c’entrava, ma è stata considerata – strumentalmente da parte di Israele – connivente con l’episodio. A questo atto criminale è seguito un attacco di droni israeliani sulla Striscia il 7 luglio 2014, ai quali è seguito un lancio di razzi di Hamas e via via in un crescendo tutta la situazione è degenerata. Una storia che si ripete, una lunga striscia di sangue che alimenta rancore e che allontana ancora di più ogni possibile soluzione negoziata. Lo voleva Hamas, ma lo voleva anche Israele che, dopo la rappacificazione tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese il 23 aprile 2014, vedeva un pericolo incombere sui negoziati e sulla sicurezza del suo Paese. Un film questo che, con ricorrenze cicliche ,da 60 anni coinvolge le parti in causa: “Operazione Arcobaleno” nel maggio del 2004, “Operazione Giorno di Penitenza” sempre nel 2004, “Operazione Nuvole di Autunno” nel 2006, “Operazione Inverno Caldo” nel 2008, “Operazione Piombo Fuso” nel 2009-2010, ”Operazione Pilastro della Difesa” nel 2012 fino all’attuale “Bordo Protettivo”. Come sempre avviene, parte della guerra si gioca sul piano mediatico. Basterebbe vedere l’influenza che le immagini da Gaza hanno sull’opinione pubblica mondiale e le reazioni che queste hanno prodotto in tutto il mondo. E anche qui non meraviglia che, dopo aver pubblicizzato e documentato la strage di civili in un quartiere periferico di Gaza, siano stati volutamente sparati da Israele dei colpi di artiglieria contro la sede di Al Jazeera nella Striscia. L'emittente del Qatar è stata etichettata dal Ministro degli Esteri di Tel Aviv, il falco Avigdor Lieberman, come organo ufficiale di Hamas. Il suo collega responsabile del dicastero delle Comunicazioni, Gilad Erdan, intende mettere il canale televisivo in condizioni di non trasmettere (ed anche qui si potrebbe fare un parallelismo con i tre giornalisti di Al Jazeera recentemente condannati in Egitto a pene pesanti per l'accusa di essere collusi coi terroristi e di mettere a rischio la sicurezza nazionale). E non meravigli nemmeno il fatto che, dopo la decisione da parte dell’Onu di aprire un'inchiesta sui presunti crimini di guerra commessi da Israele ed Hamas, siano state colpite una sede e tre scuole (su 69 operanti) dell’UNWRA, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, causando altre vittime civili. Quasi una sfida israeliana al mondo. E forse, sulla stessa lunghezza d’onda, sono stati sparati razzi sulle autoambulanze della Croce Rossa Internazionale e colpite anche alcune moschee. Israele non ha ancora capito che, dopo oltre 60 anni di guerre inutili, non è con l’uso spregiudicato e sproporzionato della forza che si risolve la questione palestinese. E che è il sostegno del mondo – Stati Uniti in testa – a garantirgli la sopravvivenza. E’ lecito quindi domandarsi a cosa serva questa nuova guerra se non a perpetrare nel tempo quell’odio che oramai si tramanda da una generazione all’altra, una lunga scia di sangue guidata da logiche primitive di vendette perpetue all'insegna del dente per dente... Dal lato di Hamas è invece doverso chiedersi perché abbia deciso di confrontarsi militarmente con Israele anziché accedere ad una soluzione negoziata. Una guerra persa in partenza che sicuramente non aiuta una eventuale risoluzione del problema palestinese e che infligge lutti e sofferenze alla popolazione civile.
 
Un calcolo politico
 
Il calcolo è sicuramente di ordine politico e trova anche origine in alcune circostanze concomitanti: l’isolamento dall’Egitto, il mancato sostegno dei Fratelli Musulmani che oggi stanno subendo una caduta di immagine nel mondo arabo, l’intransigenza di Israele che sicuramente indebolisce il prestigio dell’Autorità Nazionale Palestinese e che fornisce spazi all’opzione radicale di Hamas, il richiamo ad una solidarietà che oggi solo l’Iran e gli Hezbollah libanesi (nonostante recentemente tra le due organizzazioni vi siano state forti divergenze sulle vicende siriane) potrebbero fornire al movimento. Il conflitto a Gaza avviene anche in un contesto regionale fortemente polarizzato in opposti schieramenti: Egitto e Arabia Saudita contro Hamas, Turchia, Iran e Qatar a sostegno. Perché – ed è questo l’oggetto del contendere – in tutto questo rientrano le vicende della cosiddetta Primavera Araba ed il ruolo che in tali eventi hanno avuto i Fratelli Musulmani. Hamas è notoriamente una costola della Fratellanza. E da tutto questo rivolgimento politico regionale l’unico che ne esce vincitore è l’Egitto. Il ruolo di mediazione intrapreso da al-Sisi ha fatto dimenticare al mondo un colpo di Stato militare cruento e una sequela di persecuzioni ed uccisioni contro gli oppositori, oltre la messa al bando della Fratellanza e della sua ala politica. Sul fronte iraniano, purtroppo per Hamas, la presidenza di Hassan Rouhani sta tentando di ritagliarsi una legittimazione internazionale attraverso i negoziati sul nucleare e gli Hezbollah sono oggi molto più impegnati nel sostegno militare al regime siriano. Queste circostanze offrono poco spazio ad un fattivo supporto in un conflitto, mentre in altri tempi sarebbe potuta ipotizzare l’apertura di un altro fronte di battaglia sul confine israelolibanese.
Anche nell’ambito dei movimenti terroristici mediorientali, da Al Qaeda in giù, non è arrivato nessun segnale di sostegno ed incoraggiamento. Anzi, in alcuni tweet di fazioni e personaggi jihadisti, Hamas è stata etichettata un governo apostata perché combatte per la libertà e l'indipendenza anziché per Dio. Su questo giudizio negativo pesa il fatto che Hamas goda del sostegno sciita. Il conflitto con Israele ha avuto ripercussioni anche sul rapporto con l'ANP, costretta a passare dalla critica all'escalation militare – mettendo sullo stesso piano Hamas ed Israele – a tentativi di mediazione ed infine a schierarsi con le popolazioni della Striscia. La stessa Hamas al suo interno vede confrontarsi due anime: quella incline ad una convivenza con Israele (ed è la stessa parte dell’organizzazione che aveva spinto ad una riconciliazione con Abu Mazen) e quella che invece rifiuta ogni compromesso. Ed è quest’ultima che oggi guida le intenzioni e le azioni di Hamas, peraltro in concorrenza con un altro attore interno su posizioni ultra-radicali: la Jihad Islamica. Hamas ultimamente aveva subito un calo di popolarità all’interno della Striscia. Ora cerca di capitalizzare il consenso che la guerra gli potrebbe procurare con delle richieste negoziali: il rilascio dei prigionieri palestinesi (alcuni erano stati scarcerati in cambio della liberazione di Gilad Shalit nel 2011, ma poi nuovamente arrestati), il ritiro militare israeliano dalla Striscia, la riapertura del confine con l’Egitto, la possibilità di costruire un  porto ed un aeroporto nel proprio territorio, l’allargamento delle miglia marine per la pesca sulle proprie coste, la fine dell'embargo su Gaza operante dal 2006, l’eliminazione della zona tampone che Israele, all’interno della Striscia, ha interdetto alla circolazione dei palestinesi. Fra tutta questa serie di criticità, Hamas cerca la strada del martirio e dell'intransigenza, ma lo fa – ed è l’aspetto più emblematico – imponendo al suo popolo, come detto, lutti e sofferenze. Un martirio quindi calcolato in un perseguito, e per certi versi agghiacciante, scambio tra sconfitta militare e guadagno politico. Dal canto suo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu è sicuramente spinto al radicalismo dalla sua compagine di governo. Entrambi schiavi delle proprie logiche e convenienze.
 
Lezioni per il futuro
 
Come per tutte le guerre inutili, quelle che poi alla fine non hanno né vincitori né vinti, il campo di battaglia è il vero test per armi e tattiche; tutte esperienze poi da riciclare nella prossima escalation. Se si valuta il conflitto fra Hamas e Israele sotto questo aspetto vengono fuori degli insegnamenti che saranno sicuramente utili alle parti negli scontri prossimi futuri. Intanto i primi insegnamenti: l’Iron Dome (“Kipat Barzel” in ebraico), il sistema antimissile israeliano, funziona egregiamente ed è statisticamente sull’ordine del 90% di efficacia, il che è un ottimo risultato. Peraltro è in via di approntamento un altro sistema antimissile ancora più sofisticato, il “David's Sling”, che dovrebbe entrare in operatività nel 2015. Ma da parte israeliana ci sono anche aspetti meno rassicuranti: i tanti tunnel scavati (ne sono stati trovati oltre 30, molti di più di quanto immaginato all’inizio) hanno costretto ad un'invasione di terra per trovarli e distruggerli. Questo significa che non esiste oggi un sistema tecnico per individuarli. Altrettanto preoccupante per Tel Aviv è la grande disponibilità di missili in mano ad Hamas e alla Jihad Islamica. Si parla dell’ordine di 10.000, di cui circa 3000 sparati. Questo significa che nel sistema di intelligence israeliano qualcosa non ha funzionato. Anche se è pur vero che Hezbollah ha istruito nel tempo Hamas sul come costruire i razzi da sola, ovviamente i materiali, gli esplosivi e gli equipaggiamenti da qualche parte sono entrati nella Striscia. E questo nonostante la recente ostilità da parte dei militari egiziani che hanno cercato di bloccare il contrabbando dal Sinai. L’intercettazione il 5 marzo 2014 di una nave iraniana proveniente dall'Iraq, scalo intermedio in Yemen e diretta verso Port Sudan con razzi a bordo destinati a Gaza (evento reso noto da Israele, ma negato da Teheran) era evidentemente solo la punta dell'iceberg. Poi ci sono le tattiche: quelle adottate da Hamas, soprattutto dal braccio armato del movimento, la Brigata Izzidin al Qassem, rispecchiano gli addestramenti e le direttive impartite a suo tempo dagli Hezbollah. La costruzione dei tunnel era parte di questa strategia, laddove Israele ha il dominio dell’aria ed Hamas quello del sottosuolo. A tale scopo vi è stata la costituzione all'interno della Brigata di squadre operative, chiamate Morabitoun (“le sentinelle”) per lavorare sottoterra. E, sempre secondo le indicazioni degli Hezbollah, i tunnel si dovevano diversificare a seconda delle loro finalità: quelli economici (come quelli verso l’Egitto), quelli per lo stoccaggio di armi e missili, quelli per la salvaguardia e la protezione dei leader del movimento e per dirigere la guerra da siti protetti, quelli per le operazioni militari e le infiltrazioni in Israele. Dal canto suo, non è stata soltanto una scelta politica quella che ha fatto fermare l’avanzata israeliana all’interno della Striscia, ma soprattutto di ordine militare. Il combattimento negli abitati implica molte vittime fra i propri soldati ed è un'opzione che Israele non può permettersi. Il vantaggio dei mezzi corazzati non esiste più. Non basta più avere la prevalenza di fuoco e delle armi per vincere. E più distruggi con i bombardamenti, più opportunità difensive offri a chi si nasconde nei centri urbani. E' proprio dagli insegnamenti degli Hezbollah all’utilizzo di armi controcarro all’avvicinarsi dei carri armati israeliani nelle aree urbane che Hamas ha tratto giovamento. Così come dal rinnovato ricorso all’utilizzo di kamikaze. Il ritiro unilaterale non è stato quindi correlato ad un gesto conciliatorio, ma ad una necessità operativa. Anche qui si tratta di una storia già vista in precedenti invasioni, tutte durate giusto il tempo di infliggere perdite all’avversario (33 giorni nel 2006 in Libano, 29 con “Piombo Fuso” del dicembre 2008, ancora meno con “Pilastro della Difesa” nel 2012).
 
Bilancio provvisorio
 
Anche questa guerra tra Hamas e Israele, come le precedenti, finirà con un nulla di fatto. Rimarranno i morti ammazzati su ambo le parti, i feriti, le centinaia di migliaia di persone senza più una casa. Nonostante tutto questo, Israele migliorerà la sua sicurezza interna, ma accumulerà ulteriore odio e sete di vendetta. Quanti “nemici” ha ammazzato Israele? Le fonti governative di Tel Aviv parlano di circa 900 “terroristi” (ed è forse un dato in eccesso). Sta di fatto che la Brigata Izzidin al Qassem conta una forza di circa 15/20.000 uomini e quindi la sua capacità militare rimane sostanzialmente immutata. Ad essa è affiancata la Brigata Al Quds della Jihad Islamica che conta 1.500/2.000 combattenti. Questo significa che le statistiche ONU, quelle che dicono che circa il 60/70% dei morti in questa guerra sono civili, trovano conferma. Se l’obiettivo di questa guerra era la distruzione dei tunnel, può darsi che l’operazione militare abbia raggiunto il suo scopo. Ma se invece era quello di eliminare il pericolo derivante dalla capacità militare di Hamas e della Jihad islamica, de-militarizzare la Striscia, questi obiettivi non sono stati raggiunti. Sul piano internazionale, ogni conflitto non aiuta a migliorare l'immagine di Israele. Le accuse in sede ONU lo quantificano. I rapporti con gli USA si sono particolarmente irrigiditi. Lo dimostra anche l’intercettazione da parte del Mossad del telefonino del Segretario di Stato americano John Kerry durante i suoi tentativi di mediazione. Non è sicuramente attraverso questa breve guerra che si risolverà l’annoso problema palestinese. Sul fronte opposto, Hamas (affiancata dalla Jihad Islamica) ha inflitto lutti e sofferenze alla popolazione che abita nella Striscia senza ottenere evidenti guadagni pratici. Ha solo reso nuovamente centrale il proprio ruolo nell’ambito della diaspora palestinese, ma è un guadagno che varrà fino a quando i negoziati dell’Autorità Nazionale Palestinese non produrranno risultati. Hamas ha davanti a sé un periodo difficile perché la popolazione è adesso senza elettricità, molte case sono distrutte, fogne e sistemi idrici sono in totale dissesto. E manca il cemento per ricostruire. Tutte circostanze che non potranno essere affrontate senza il soccorso dell’Egitto e gli aiuti internazionali.
 
LE ORGANIZZAZIONI ISLAMICHE NON GOVERNATIVE E LA  DIFFUSIONE DEL TERRORISMO
 
L’Islam non ha un centro, una struttura di comando, qualche autorità che aiuti il credente ad interpretare le sacre scritture dando loro il significato  appropriato. Da questa circostanza nasce oggi la facilità con cui vengono strumentalizzati i sacri testi per giustificare il terrorismo nelle sue forme più sanguinarie. Ad alimentare il radicalismo ci pensano le diverse le scuole di pensiero teologiche che spaziano da una interpretazione ortodossa e letterale del Corano (quelle che più si riconoscono nella corrente salafita) e quelle più inclini, come i sufi, ad un Islam dal volto più moderato. Le correnti che propugnano interpretazioni estremizzanti dei concetti religiosi,favorendo così il passaggio dal radicalismo religioso al terrorismo, hanno però bisogno di un veicolo per la trasmissione e diffusione del consenso. Ovvero di strutture che alimentino il radicalismo, lo trasformino in estremismo e quindi, nella chiusura del ciclo, offrano dimora ideologica e soldi per quelle frange armate che si dedicano al terrorismo di matrice islamica. E' in questo contesto che occorre analizzare il ruolo delle Organizzazioni Non Governative (ONG) islamiche. Ufficialmente hanno finalità umanitarie, ma in realtà, negli ultimi decenni, sono state lo strumento principale per la diffusione dell’Islam radicale non soltanto nei Paesi musulmani, ma anche in quelle nazioni in via di sviluppo dove il sostegno finanziario elargito ha un forte impatto sociale. Non sorprende quindi che il terrorismo islamico abbia attecchito anche in Africa e che dietro a questo proliferare di idee radicali vi siano spesso ONG saudite, cioè legate ad una setta musulmana ortodossa e radicale come il wahabismo dalle forti disponibilità finanziarie.
 
Il ruolo delle ONG 
 
Il ruolo di queste ONG islamiche è perciò centrale perché veicola una visione antagonista del rapporto con le altre religioni in un approccio conflittuale dalle caratteristiche militari. Fanno proselitismo (che talvolta si trasforma in reclutamento), diffondono idee oltranziste, creano un rapporto di sudditanza da parte di chi riceve sostegno, aiuto o assistenza. Attraverso le ONG wahabite è avvenuto, nel passato recente, il reclutamento, finanziamento, sostegno logistico e addestramento dei mujaheddin afghani, bosniaci ed ultimamente mediorientali. Basterebbe ricordarsi, al riguardo, del wahabita più famoso: Osama bin Laden. Le ONG che fanno capo direttamente o indirettamente all’Arabia Saudita sono molte e non necessariamente sono state coinvolte in attività eversiva, ma – consapevolmente o no – sono state comunque veicolo di una ideologia e di un approccio religioso che hanno seminato il fanatismo in varie parti del mondo, il quale si è trasformato poi in integralismo ed infine in terrorismo. Il paradosso di tutto questo è che l’Arabia Saudita, apparentemente schierata con il mondo occidentale nel combattere il terrorismo, ne è nel contempo è il principale sponsor. Si potrebbe anche dissertare sul fatto che le ONG saudite sono generalmente private e che quindi non coinvolgono nel loro operato lo Stato a cui appartengono, ma anche qui il distinguo è molto opinabile perché la monarchia saudita è legittimata dal credo wahabita e quindi è nei fatti consenziente con l'ideologia che tale dottrina diffonde. Poi, un po’ come avviene in tutta la penisola arabica e in Medioriente, le istituzioni governative hanno sempre un occhio di riguardo verso queste organizzazioni caritatevoli nella misura in cui non creano problemi alla loro stabilità.
 
Organizzazioni controverse
 
Sta di fatto che nel corso degli anni alcune di queste Organizzazioni Non Governative wahabite sono state indagate o accusate di collusione con il terrorismo: • Lega Mondiale Musulmana E’ stata costituita a la Mecca negli anni ’60. Scopo principale è la diffusione dell’Islam e la riunificazione di tutti quei movimenti che perseguono l’introduzione della Sharia nei propri
Paesi. La sua attività si esplica attraverso la costruzione di moschee, scuole coraniche, centri culturali e la distribuzione gratuita di libri (religiosi). Dopo l’attentato alle Torri Gemelle del settembre 2001, i suoi uffici sono stati perquisiti dall’FBI, un suo esponente, Abdul Rahman Alamoudi, è stato a suo tempo arrestato per finanziamento a gruppi terroristici. La Lega è ancora attiva oggi con uffici nei cinque continenti. • Fondazione “Al Haramain” Ha la sua sede principale a Ryad. Scopo principale è l’assistenza alle comunità islamiche nel mondo. Ha finanziato in passato l’attività dei mujaheddin in Afghanistan. Il suo nome è stato associato agli attentati contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam nel 1998, è ritenuta fortemente attiva in Somalia. Lo è stata anche in Bosnia negli anni '90 a favore di quei battaglioni di mujaheddin che combattevano a favore del governo di Sarajevo. E’ accusata anche di contatti con la Al Jamaat al Islamiyah egiziana. Nel settembre 2004 l’organizzazione è stata accusata dal Dipartimento del Tesoro americano di avere legami con Al Qaeda e Osama bin Laden. Successivamente è stata messa al bando anche dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. • Fondazione “Al Mouwafaq” Anch’essa ha la sede principale a Ryad, ma ha anche vari uffici di rappresentanza in Europa e nei Balcani. Scopo principale è dare sostegno ai rifugiati musulmani nel mondo. In passato è stata associata all’attività di sostegno a favore delle organizzazioni islamiche tunisine (quando Ben Ali era al potere e, per paradosso, adesso il dittatore tunisino si è rifugiato proprio in Arabia Saudita). E’ stata accusata di legami con la Jamaat Islamiyah egiziana, finanziando un battaglioni di mujaheddin egiziani che combattevano in Bosnia che portavano il nome di Brigata Mouwafaq. Altrettanto dicasi per i campi di addestramento in Afghanistan. La sua filiale a Monaco, in Germania, è stata sospettata di collegamenti con al Qaeda. Nell’ottobre 2001 gli Stati Uniti hanno accusato uno dei principali finanziatori della fondazione, il multimilionario saudita Yassin al Qadi, di aver finanziato attività terroristiche, ma nessuna azione è stata presa nei confronti della Fondazione. • Consiglio di Coordinamento Islamico Fondato nel 1986, la sua sede principale è a Peshwar, in Pakistan, ed opera a favore dei rifugiati afghani con finanziamenti privati in maggioranza provenienti dall’Arabia Saudita. Anche su questa organizzazione sono caduti sospetti di attività terroristica. • Organizzazione del Soccorso Islamico Internazionale (International Islamic Relief Organization – Hay’at al Ighatha al Islamiyah al Alamyah ) Fondata nel 1979, ha la sua sede principale a Gedda. Ha sedi distaccate in 90 Paesi del mondo. Prima della sua fondazione al suo posto c’era il Dipartimento dell’aiuto islamico mondiale, un organismo della Lega Islamica Mondiale. Scopo principale è quello di fornire assistenza agli orfani dei rifugiati e alle vittime della guerra. Lo fa coinvolgendo tutta una serie di banche e organizzazioni finanziarie islamiche. Il nome di questa ONG è stato
spesso affiancato al sostegno dato a vari gruppi integralisti nordafricani, come la Jihad islamica e la Jamaat islamyah in Egitto, l’Ennadha tunisina (quando Rachid Ghannouchi era in esilio a Londra), il Fronte Islamico di Salvezza algerino, Hamas, lo stesso Osama bin Laden, i mujaheddin di Bosnia. Un suo associato, Ramzi Ahmed Yousef, è stato implicato nell’attentato al World Trade Center di New York del 1993. C'è dell'altro Accanto a queste ONG wahabite private anche il governo saudita ha un suo organismo per l’attività caritatevole , l’Alta Commissione Saudita (Saudi High Commission), che pur non perseguendo finalità di terrorismo, ha fornito nel tempo assistenza a varie formazioni come la palestinese Hamas ed il FIS algerino. Per quanto riguarda l’Africa, invece, è molto attiva un’altra organizzazione: l’Agenzia dei Musulmani d’Africa. Con sede in Kuwait, è legata non più al mondo wahabita, ma a quello dei Fratelli Musulmani. Questo organismo opera ed è presente in 34 Paesi del continente africano. Benché si dichiari politicamente neutrale ed ufficialmente si dedichi alla diffusione del “dawa” (messaggio) islamico, la riabilitazione della cultura araba e musulmana, lo sviluppo degli insegnamenti religiosi, è stata spesso considerata un veicolo attivo dell’integralismo musulmano in Africa. Geograficamente è molto presente sulla costa orientale del continente e nelle isole (Zanzibar, Comore, Pemba, Lamu). In questa ricerca delle radici islamiche delle popolazioni e comunità africane, l'Agenzia è spesso entrata in collisione con le autorità di vari Paesi come Gabon, Senegal, Zimbabwe, Camerun. Oggi è presente con progetti agricoli in Mali, fornisce assistenza alle popolazioni tuareg, offre borse di studio, assiste gli orfani, costruisce moschee. Ha tanti soldi e questo aiuta la diffusione della sua ideologia. L’Agenzia dei Musulmani d’Africa è stata sospettata di finanziare la Al Ittihad al Islamyah dello Sheykh Hassan Dahir Aweys in Somalia

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